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Non solo Renzi. Guida essenziale per capire perché l’Italia avanza ma pur sempre col pil frenato

Elena Bonanni
Industria, export, tasse e ricambio generazionale. Ecco perché l'Italia non cambia passo
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Milano. Il pil del secondo trimestre è cresciuto come da attese di governo ed economisti: più 0,2 per cento, che si traduce in previsioni per fine anno a più 0,7. “Non c’è una ripartenza vera”, ha però sentenziato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Non si vede quello scatto in avanti che faccia sperare in una vera inversione di marcia che porti magari a un più pingue e rassicurante più 1 per cento a fine anno.  E che scongiuri il rischio, già vissuto, di una ripresa da “fuoco di paglia”. Cosa frena la crescita? Certo le riforme daranno frutti consistenti solo più avanti e l’incertezza fiscale continua a pesare. Ma c’è anche una classe imprenditoriale che ha bisogno di un cambio di passo. E una società civile che fa di tutto per complicare le cose, con i sintomi della sfiducia che si materializzano dove meno ce lo si aspetta, come i ventimila docenti (su novantamila aventi diritto) che non partecipano al piano straordinario di assunzioni varato dal governo per il rischio di dover trasferirsi altrove.

 

Molta Fiat, poca Confindustria. “E’ una ripresa guidata dai consumi che ci danno qualche decimo di pil, però in buona parte legato ai Suv e all’auto in generale, ossia alla Fiat. E’ di fatto un pil targato Marchionne e non Confindustria. Forse per questo Squinzi non è molto contento. In realtà sono numeri in linea con quelli attesi da tutti gli economisti”, dice al Foglio l’economista  Fedele De Novellis di Ref Ricerche ricordando anche che un decimo di questa crescita potrebbe anche arrivare dall’effetto Expo. In ogni caso, a frenare il pil non sono i consumi che sono su un sentiero di lenta ripresa da metà 2013.

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Export, zavorra a sorpresa. “Da qualche tempo l’export è debolissimo in tutti i paesi occidentali e dopo quello che abbiamo visto con la Cina (rallentamento economico e svalutazione dello yuan, ndr) sarà anche peggio nella seconda parte dell’anno – dice De Novellis – La domanda dei paesi emergenti è stata meno forte di quello che ci si aspettava”. Anche per colpa dei bassi prezzi delle materie prime che hanno ridotto le importazioni dei paesi produttori di commodity. Sulla domanda aggregata manca poi la voce “spesa pubblica” e per l’economia rimane il tallone d’Achille del settore edile che avrà bisogno di anni per riprendersi. “E’ chiaro – dice De Novellis - che in questo contesto l’imprenditore è cauto e gli investimenti restano fermi nonostante i segnali di ripresa”.

 

Meno tasse, seriamente. “Molti lamentano una mancanza di investimenti – aggiunge  Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo – E’ senz’altro vero. Ma un’indagine della Commissione europea mette a confronto il capitale investito dei vari paesi europei in rapporto al pil e l’Italia ne ha più di Francia e Germania. Abbiamo un motore di grossa cilindrata che va più piano perché negli ingranaggi ci sono granellini che frenano”. Che si chiamano lentezza decisionale, sistema pubblico che non aiuta le imprese, burocrazia, alte tasse, mancate riforme, zero crescita della produttività. In altri termini, la zavorra arriva dalla “lentezza del sistema economico” che abbiamo ereditato. “Non è corretto gridare al mancato miracolo della crescita italiana, siamo all’inizio di una fase di riforme che produrrà benefici in 4-5 anni se non di più – dice De Felice – Quello che potrebbe accelerare davvero la ripresa sarebbe una riduzione della tassazione purché sia percepita come permanente”.

 

[**Video_box_2**]Ricambio generazionale. “La forte imprenditoria italiana è invecchiata – dice De Felice – le generazioni seguenti non hanno la stessa voglia di fare dei loro genitori. Dobbiamo avere un po’ più di mordente imprenditoriale e crederci tanto. Piange il cuore quando si vede che grandi imprese italiane preferiscono investire all’estero: è un tema di fiducia e di calcolo economico ma chi ha scelto di fare l’imprenditore ha anche una grossa responsabilità sociale. La crisi del debito sovrano ha depresso gli animi”.

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