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Verso le riforme e oltre

Spread, pensioni e non solo. Prove tecniche del fattore “C” che svanisce

Stefano Cingolani
L’Istat vede rosa sulla crescita italiana (pil a più 0,7%), ma ci ricorda quanto poco dipenda da noi. Grexit, spread in su, Qe non infinito, derivati, Consulta vs. Fornero, petrolio un filo più caro.
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Roma. Questa volta dall’Istat non s’alzano in volo gufi, ma rondinelle. I dati pubblicati ieri hanno ridato il sorriso a Matteo Renzi e a Pier Carlo Padoan, piuttosto acciaccati dopo la legnata sulle pensioni ricevuta dalla Corte costituzionale: anche se i quattrini saranno restituiti a rate e solo in parte, bisognerà mettere a disposizione tra i 13 e i 15 miliardi di euro che nessuno sa, oggi come oggi, dove trovare. L’Istituto di statistica porta buone nuove: la crescita reale attesa passa dallo 0,5 per cento stimato a novembre allo 0,7. I tre anni di recessione sono dietro le spalle e il trend sarà confermato anche nel prossimo biennio: l’economia crescerà dell’1,2 per cento l’anno prossimo e dell’1,3 nel 2017. Si tratta di “prospettive”, lo dice il titolo stesso della pubblicazione, ma meglio che niente.  Il progresso del pil per ora è spinto soprattutto dalla domanda estera (0,4 punti percentuali), ma nel biennio successivo il rafforzamento ciclico determinerà un apporto crescente della domanda interna (più 0,8 e più 1,1 punti percentuali). L’aumento delle importazioni favorirà una diminuzione del contributo della domanda estera netta nel 2017. Gli investimenti riprenderanno a crescere grazie alle migliorate condizioni del credito, ma a ritmo ancora blando.

 

L’Istat si attende un miglioramento della spesa delle famiglie (più 0,5 per cento) e scommette sul graduale aumento dell’occupazione che dovrebbe rafforzare i consumi privati (più 0,7 per cento l’anno prossimo) e portare a una moderata riduzione del tasso di disoccupazione nel 2016. Per tornare però sotto il 10 per cento, come prevede il governo, bisognerà aspettare almeno il 2019, sperando che il ciclo non si inverta di nuovo.

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Siccome l’uccello di Minerva s’alza solo di notte, sfogata la gioia subentra la saggezza. Prendiamo la crescita: di quello 0,7 per cento in più, uno 0,5 per cento deriva direttamente dall’allentamento quantitativo, cioè è opera della Banca centrale europea di Mario Draghi. Dunque, si tratta di una ripresina esogena; le spinte interne sono ancora deboli e possono essere ricondotte anch’esse al traino dei fattori esterni. Intanto, si cominciano a percepire alcuni effetti indesiderati del Quantitative easing. Il primo è che l’inflazione di riferimento (quella a cinque anni) si sta avviando verso l’1,8 per cento, quindi già vicina a quel 2 per cento che rappresenta l’obiettivo della politica monetaria. La Bce resta vittima del proprio successo, ma ciò significa che il Qe potrebbe finire ben prima dell’autunno 2016 (i tedeschi già battono la grancassa). Le aspettive cambiano anche sui mercati dei titoli: i prezzi scendono, emerge una propensione a vendere con un rialzo dei tassi (quelli dei Btp sono vicini al 2 per cento) che certo non fa bene all’Italia. Il Wall Street Journal parla di un “surriscaldamento”. Non solo: inizia a manifestarsi una certa scarsità di bond, un pericolo previsto ma che rischia di presentarsi molto in anticipo. E non c’è da trascurare nemmeno la ricaduta negativa che l’abbassamento così repentino dei tassi di interesse ha provocato sui derivati acquistati dal Tesoro. Ammontano a 159 miliardi di euro e servivano come assicurazione contro lo spread. Complessivamente il governo ha contabilizzato per i derivati che hanno nei loro contratti clausole di risoluzione anticipata una perdita virtuale di 42,6 miliardi e una perdita reale di 9,3 miliardi. Un rialzo dei tassi potrebbe alleggerire la bolletta, ma per i conti pubblici è un’altra grana. Il petrolio ieri è tornato sotto i 60 dollari al barile, ma i mini rally di questi giorni ci hanno ricordato che nemmeno l’energia a basso costo sarà per sempre.

 

[**Video_box_2**]E se poi il melodramma greco si trasformasse in tragedia? Tutti, da Atene a Bruxelles, passando per Francoforte, camminano su un filo teso nel vuoto. Il ministro delle Finanze ellenico Yanis Varoufakis ieri era a Bruxelles e ha assicurato che lo sblocco dell’ultima tranche di aiuti (7,2 miliardi) è questione “di giorni o settimane” (sic!). Martedì c’è da restituire altri 750 milioni al Fmi, ma il tormentone durerà fino al 30 giugno quando scade il secondo programma di salvataggio. In una intervista al Monde, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroem Dijsselbloem, fa cadere il tabù, ma resta fedele all’ipotesi di ristrutturazione attraverso l’allungamento delle scadenze e la riduzione degli interessi, cioè non al taglio del valore nominale del debito (pari a 320 miliardi), come avvenne nel 2012. Sia la Commissione Ue sia la Bce, stanno studiando ipotesi sul modello Cipro (è appena finito il controllo dei capitali e di fatto il doppio regime valutario). Con la differenza che l’isola ha accettato di seguire le direttive della Troika. Il solo discutere di default mette in fibrillazione i mercati finanziari e riporta nel limbo l’intera Europa, compresa quella fuori dall’euro sulla quale ricade sia la confusione politica britannica, sia il disallineamento dei paesi nordici. Le rondini dell’Istat volano, dunque, ma la primavera economica stenta ad arrivare.

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