FACCE DISPARI
Alberto Rollo: “Il piacere di leggere nasce dal racconto orale”
Dal teatro alla traduzione letteraria alla scrittura, dopo una carriera da editor. "La prima regola è non mettersi davanti, ma al fianco dell’autore". Intervista
La prima domanda per Alberto Rollo è quella che non gli facciamo: quanti libri, nella sua carriera di editor, ha accompagnato alla pubblicazione. Ma il lungo artigianato si ridurrebbe a statistica ed è probabile che lui non abbia poi serbato il conto. Meglio chiedere come li abbia fatti nascere o parlare di montagne, passione di questo signore milanese dalla testa ai piedi che è con parsimonia diventato anche scrittore dopo tante cose, dal teatro alla traduzione letteraria.
Qual è la regola dell’editor?
La precede una premessa: l’amore per il mestiere. La prima regola è non mettersi davanti, ma al fianco dell’autore. Non ho niente da insegnargli, piuttosto ascolto e chiedo come sta lavorando. La mia vita da editor è stata piena di domande.
Il difetto da evitare?
Il giornalismo talora ha spinto a identificare gli editor come protagonisti e invece non lo siamo. Rendiamo un servigio a un’azienda e confortiamo chi lavora con l’immaginazione. Il destino di un editor è scomparire.
E il vantaggio?
Sentirsi giovane più a lungo. Per riuscirci niente di meglio che questo lavoro, perché impone di scovare e misurare l’immaginazione del mondo.
Ha cominciato a scrivere quando si è sentito vecchio?
Quando ho cercato un’altra svolta verso la giovinezza. Un ulteriore modo di tornare indietro.
Molti “giovani scrittori” restano tali anche da vecchi.
Si pensi a Stefano Benni. Ma forse più che l’anagrafe bisogna valutare la disposizione soggettiva: non sempre speranza e ribellione s’esauriscono a vent’anni. Ci sono invece autori che si consumano presto e senza troppa sofferenza, ci sono adulti prima del tempo o contro il tempo e poi gli esordi ipermaturi, per esempio i magistrati che scoprono a una certa età di avere alle spalle parecchie storie da narrare.
Quando si capisce che un romanzo resterà?
Per la canonizzazione, la mia generazione attraversava il vaglio della critica che adesso non c’è più, sostituita da intelligenti recensori sui giornali. Oggi un vero lancio è sempre un po’ gridato e se lo scrittore appartiene a qualche giro è più facile che si faccia parlare addosso. Però manca l’approfondimento, la forza dell’analisi. Il percorso per il successo è legato alla ripetizione di un apprezzamento attraverso i luoghi tecnologici, cui magari si aggiungono gli antichi modelli del passaparola e dei premi maggiori, Strega e Campiello. La tv ha un peso ancora importante con i talk show, dove l’autore porta il tema, non l’essenza letteraria. È il tema che vince.
Più della scrittura?
Un autore dovrebbe consistere di tema e di stile. È il mondo che decide di pigiare più sull’uno che sull’altro, e in questa fase la scoperta dello stile ha un sapore massonico: ci si passa l’idea che qualcuno scriva anche bene. Ma è una modalità di riflessione consegnata alle scuole, dove si fa esercizio per montare la propria voce.
Quali tra i narratori italiani recenti riconoscerebbe al volo da una pagina?
Tabucchi subito. Con certezza anche Ammaniti, per la sua dimensione di scrittura che sembra quasi incisa. Poi Baricco, ma rischiando di confonderlo con le “bariccate” degli emuli. Per gli ultimissimi non so: si assomigliano, ma nello spazio di un decennio chissà. Forse qualcuno conseguirà l’ambizione che avevano i romantici, di sentirsi e viversi come unico. Però i romantici avevano una modalità di condivisione che è quasi scomparsa: nell’attuale società letteraria il concetto di appartenenza non è più legato alla forza interiore dell’espressione.
Notò Daniele Del Giudice che la letteratura dovrebbe cogliere tra le modificazioni principali del suo tempo quelle prodotte dalla tecnologia sui sentimenti, “perennemente identici a se stessi e perennemente mutabili”.
E aveva ragione: un ragazzo intelligente che scrive non può non partire da quanto sta vivendo, compresi Instagram e TikTok. Però un romanzo riuscito è quello in cui nel mutato contesto si rinviene una certa antichità, perché le dinamiche dei protagonisti e il racconto dei legami non cambiano. Perciò sono così attuali le ‘Illusioni perdute’ di Balzac, anche se non andiamo più in carrozza.
La inorgogliscono più le pagine che ha letto o che ha scritto?
Sono orgoglioso di alcune pagine che ho pubblicato, ma mi commuove anche essere riuscito a dire, cito Tabucchi, due o tre cose che so su di me.
Cosa legge in questi giorni?
‘La follia di Hölderlin’ di Giorgio Agamben.
Come si comunica il piacere della lettura?
Per invogliare a leggere devi imparare a raccontare quel che c’è nei libri. Il piacere della lettura all’inizio non esiste, dimentichiamolo. È piuttosto una fatica cognitiva.
Dice che la voglia viene dalla narrazione orale?
Sì, da un bel racconto orale che abbia spessore quasi fisico. L’obiettivo si raggiunge quando il piccolo ascoltatore non ti domanda più se sia successo veramente.
L’oralità diventa fragilissima quando una storia raccontata scompare con coloro che la vissero.
La memoria diretta si consuma e per salvarla va trasmigrata in chi ascoltò, di voce in voce. O si fa letteratura, che vince tempo e censure.
Perché le piace tanto la montagna?
È una ricerca di percorsi. I monti si stagliano come eroi omerici. Possiamo contemplarli ma anche attraversarli per capire che c’è oltre. Una fascinazione opposta all’alpinismo sportivo, dove guardi la roccia cui sei appiccicato. La mia montagna è conoscere camminando.
Una catarsi?
No, la montagna non redime, non è una via iniziatica né morale, ma la scabra scoperta di come continuamente esista l’ombra con la luce.