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L'intervista

Paolo Giordano a tutto campo, dall’Ucraina al liceo classico e la sua nostalgia

Michele Masneri

Fa fatica a essere simpatico, ma nessuno ne parla male. E’ umano anche lui. La promiscuità in “Tasmania” che è “tutta finzione”, i No vax migliori di chi “fa sofismi sulla guerra”. Chiacchiere con lo scrittore, sotto al sole

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Paolo Giordano è uno scrittore serio, serissimo. Scrive libri per Einaudi, che hanno enorme successo ma non sono vergognosamente commerciali, va in televisione e non fa il buffone, fa dei reportage autorevoli sul principale quotidiano italiano. Ha una t-shirt bianca e ha appena compiuto quarant’anni ma sembra un bambino, un bambino molto carino e serio, tipo Calvin & Hobbes, che parla a bassa voce scegliendo con cura le parole. Ha una grossa fede al dito e un orologio elegante, da adulto, che stonano sul suo essere ragazzino.

Lo so, quella della simpatia è una questione per me. Sono molto intimorito. Dal dire delle cose sbagliate, non precise. Ho un problema di scioltezza”, dice, seduti al sole di un ristorante romano dove ci incontriamo per la prima volta. Ma no, ma va bene così, non cambi. “Però ‘Tasmania’ è spiritoso, dai” (è il suo ultimo romanzo, storia di una coppia in crisi sullo sfondo della catastrofe climatica). Be’, insomma, non è che uno si faccia le pazze risate.  “Ma non è facile, sa, per me, essere simpatico”.

 

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Ho chiesto in giro, nessuno dice cose negative su di lui. Se ha dei vizi o dei difetti sono segretissimi.  Sulla musica so per esempio che odia i remake. Mi dica una cosa cattiva sui Måneskin. “Ma no, sono stato uno dei primi a intervistarli”. Su, qualcosa di non serio. Sospira. “Diciamo che non li ho in playlist, ecco”. Ho letto che detesta anche i libri per bambini con finalità educative, tipo “il Piccolo Principe” o “Pinocchio”. “Sì, più che altro i libri a cui viene attribuito un messaggio. E’ il pensiero convenzionale che non mi piace tanto, ecco”. Adesso Giordano presiede anche il festival Scienza e Virgola, a Trieste da oggi al 9 maggio. Organizzato dalla Sissa, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, sei giorni di incontri, confronti sulla  scienza. Si è levato dalla corsa per il Salone del libro di Torino per dirigere il festival scientifico di Trieste? Anche questo è non convenzionale. “Ma no, sono tre anni che lo dirigo”, mi dice lui. Facile immaginarlo a Trieste tra gli scienziati, i laboratori e gli osservatori, in quella città di contegno elegante e pensierosa frontiera. O a Torino, da cui viene, che è una Trieste senza il mare. Più difficile pensarlo a Roma, tra motorini e vociare e monnezza nell’aria.
 
In “Tasmania” c’è però molto rione Monti, dove siamo pure adesso, a mangiare al sole. Quando si è trasferito a Roma? “Cinque anni fa”. Ha subito anche lei lo shock come tutti i nordici? “All’inizio ho avuto il classico incanto, proprio un innamoramento. Poi dopo mi è scesa un po’ e ora la vivo senza più tutte queste aspettative. Mi sembra una città in cui si fanno un sacco di cose, che spinge in continuazione al lavoro”. Ma è sicuro? Questo sì che è pensiero anticonvenzionale. “Forse nel mio ambiente, nel mio settore, tra gli scrittori, gli sceneggiatori”. Perché Giordano ha fatto anche tra le altre cose “Siccità” di Virzì. Sempre catastrofi! “Ma se vogliono fare la cosa comica o leggera non cercano me, diciamo”, ammette un po’ mesto. L’unico altro business rimasto a Roma oltre al cinema e alla letteratura è la Chiesa. Lei è in qualche modo credente? “Se devo dare una risposta secca sì. Mi sono fatto battezzare tardi, a tredici anni. Poi sono stato anche un ateo aggressivo, negli anni di studio della fisica, poi ho avuto una specie di movimento opposto”. Nel libro c’è un prete progressista in crisi. Sarà mica per caso don Andrea, quello che se n’è andato dai Parioli, finendo a San Lorenzo? “No, è un personaggio del tutto inventato, io non conosco nessun prete a Roma”. 
 
Ravanando nella sua biografia finalmente ho trovato un difetto. Ha fatto il liceo scientifico. Nella percezione italiana è appena una spanna sopra l’alberghiero di Giorgia Meloni. “E’ un problema, lo so”. Nell’ambiente letterario la guarderanno male. “Un po’, a volte”. E in quello scientifico? “Lì sono di nuovo quello strano, perché faccio lo scrittore”. Insomma è sempre al posto sbagliato. “Esatto”.  Nel libro effettivamente ci sono delle parti vagamente divertenti, soprattutto tra questi studiosi molto nerd. “Tra gli argomenti affrontati quella notte: l’idiozia di chiamare il bosone di Higgs ‘particella di Dio’ / l’aver letto entrambi e di nascosto ‘Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé’, con la speranza che parlasse di noi / l’ultima mappatura satellitare della radiazione di fondo / l’esserci sentiti degli sfigati cronici al liceo e l’averne sofferto a lungo, finché all’improvviso non ce n’era fregato piú nulla / la cromodinamica quantistica / l’eiaculazione precoce”.  

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“Tasmania” sembra un po’ “Rumore bianco” di DeLillo. “E’ il libro che mi ha ispirato, sì, che mi ha dato il la. Durante la pandemia pensavo: oddio, non sarò mai più in grado di scrivere una cosa di finzione, la realtà è talmente più potente”. Ha visto anche la serie? “No, preferisco di no, perché poi le immagini filmiche si sovrappongono troppo alla memoria che ho del libro”. Le serie non sembrano  piacergli troppo. Ha lavorato alla sceneggiatura di “We Are Who We Are”  di Luca Guadagnino (2020). “Per un po’ c’è stata l’idea che le serie si sarebbero prese tutto, che era la scrittura del futuro, che con questa arrivavi in tutto il mondo, che non aveva più senso scrivere romanzi, era una specie di messaggio subliminale costante. Ora penso a tutto questo con molto più distacco”. Quali ha visto ultimamente? “‘The Bear’. L’ho vista tutta in una sera a capodanno”. Seratona. “Ma spesso le lascio lì, mi dimentico che le ho cominciate. Ho visto quella sul Bataclan”. Carrère è una figura che la ispira? “Non sono un fanatico, però ‘Vite che non sono la mia’ era un libro che mi aveva colpito molto. Ora ho voglia di leggere ‘V13’”. Reportage appunto del processo ai complici e all’unico sopravvissuto fra gli autori de­gli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015. Anche lei fa questi reportage seri, come gli scrittori grossi, è stato in Ucraina… “Ecco, vede! Dice questa cosa con sarcasmo!”. No, no, ma quale sarcasmo, sono solo invidioso.  

 

Ma perché alla fine in Italia siamo sempre qui a dire quanto era bravo Moravia, e che tempi gloriosi quelli, e mannaggia oggi che non si può più fare gli scrittori come allora. Se invece qualcuno prova a farlo pare che te la tiri. C’è sempre questa doppia morale, per cui il passato è sempre glorioso, ma se uno oggi vuol fare le cose, pare che fa lo strano”. E’ molto vero. Per Giordano invece è importante “mettersi a seguire altre cose rispetto al nostro campo d’azione.  Io ormai ho un po’ superato questa cosa, il tema dell’autorizzazione. Poi può essere più o meno efficace, più o meno convincente.  Ma non esiste un campo d’azione oltre il quale non puoi andare se hai deciso di fare lo scrittore”.  In effetti lui lo ricorda, Moravia. Lo scrittore borghese che fa i romanzi di successo, va in televisione, interviene nel dibattito pubblico, è rilevante. “Alla fine anche senza accorgercene Moravia è in noi. Il primo romanzo suo l’ho letto da ragazzino, è stato uno scrittore importante per me senza che me ne rendessi conto”.  I reportage effettivamente sono bellissimi, ma i romanzi non paiono oggi un po’ illeggibili? Non è d’accordo. “Pensi a ‘Gli Indifferenti’. L’ha scritto a 22 anni”.  Un po’ come lei. Lei ha vinto lo Strega a 26. Col primo libro, “La solitudine dei numeri primi”, mentre faceva il dottorato in fisica. “Già. Tutto anomalo”. 
 
 
Chissà cosa direbbe la professoressa Borello. “Che ne sa della professoressa Borello?” Eh, ho studiato. “Era la professoressa di matematica al liceo. L’esempio classico di quanto l’incontro con una singola persona ti possa dare una traiettoria. Io non avevo nessuna predestinazione a studi scientifici, ma quell’incontro mi ha cambiato la traiettoria”.  Vede che anche allo scientifico c’è del buono. “Io un po’ la soggezione di non aver fatto il classico ce l’ho”. Ma no! E’ pazzo. Io ancora mi ricordo i  verbi greci che fanno l’allungamento in -ei all’aoristo o all’imperfetto, e però non so leggere l’estratto conto della banca. 

 

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E alla fine  sembra che più che destra-sinistra e nord-sud, quella tra liceo classico e scientifico sia la vera spaccatura insanabile del paese, un paese  totalmente crociano, turboumanista, che rifiuta sistematicamente il pensiero scientifico. E a un certo punto, il non aver avuto la professoressa Borello si fa sentire nella vita nazionale. “Quando si sfiorano argomenti che abbiano una sostanza tecnica e scientifica si sente spesso una mancanza di dimestichezza”, dice Giordano, che si spende molto nel suo positivismo soffice su temi come la guerra in Ucraina e il Covid. “Bisogna poter essere cittadini consapevoli, in una società intrisa di tecnoscienza in cui è molto facile essere schiacciati dall’idea di cose di cui proprio non capisci niente. E non c’è bisogno di essere esperti, di essere tutti scienziati, nemmeno io  lo sono. Basterebbe capirci qualcosa. Devi formarti un’opinione, per esempio sull’intelligenza artificiale: i temi sono continui. Che poi in Italia abbiamo quest’altro dualismo, oscilliamo sempre tra il merito, questo culto del merito, della competenza, oppure zero, la sciatteria totale”. C’è anche il ministero del merito ora. “Che fa molto ridere”. 

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Ultimamente va un sacco in tv. “Sì, all’inizio ero abbastanza spiazzato. Non essendoci spazi per parlare di libri, invitano lo scrittore per commentare il fatto del giorno. Poi con la pandemia studiavo molto, sono diventati temi di cui mi sono occupato costantemente. Le prime volte avevo un’ansia da performance bestiale, paralizzante, adesso l’ho un po’ superata, ho capito che c’è voglia anche di sentire persone che parlano in modo diverso, non devi dire per forza la cosa giusta”. Adesso va fortissimo. “Be’, non è che sono proprio scoppiettante”. 
 
Non si butti giù. Lei è una delle poche voci che uno segue tra tutti quei mostri televisivi. “Sull’Ucraina sento più mostruosità ancora rispetto ai no vax. Sui no vax  ero meno rigido. Pur avendo infinita fiducia nella scienza, da figlio di medico, avevo comunque rispetto per il fatto che qualcuno non volesse un’iniezione di qualcosa nel proprio corpo. Sull’Ucraina invece fanno i sofismi sulla pelle degli altri, questo proprio non lo capisco e non lo sopporto”. Ma tutta ‘sta saggezza dove l’ha presa? “Dice che sono noioso, ecco”. Ma no, però saggio sì. 
 
“Ma si è fatto l’idea che sono antipatico, lo vedo”. Ma no, gliel’ho detto, ammiro le persone serie, non riuscendo io a esserlo. “Sono circospetto”, dice. E’ difficilissima quest’intervista. “Per me’”, fa lui. Preferisce farle lei le interviste, piuttosto che rispondere alle domande? “Sì, certo. Un miliardo di volte”. Ha intervistato qualcuno che era un mito per lei? “Uhm”, ci pensa. “Sì, Tori Amos, tantissimo tempo fa”.A proposito, ha  l’orologio fermo. “Ah sì, vero, mi sono scordato di caricarlo, stamattina. Dice che è metafora di qualcosa?” No.

 
Mi hanno detto che gioca bene a tennis. “Ma no, una volta, non più”. E’ passato anche lei al tragico padel? “No, mai, il padel mai. Tutto quello che faccio ora è un po’ di ginnastica al parco, ecco”. Il calcio le fa schifo. “No, non mi fa schifo. Ma non ne so niente”. I mondiali li guarda oppure è di quelli che chiamano gli amici per chiacchierare mentre si gioca il novantesimo minuto (come faccio io)? “No, li guardo”.   
 
Adesso veniamo al vero tema dell’intervista. “Cioè?”. Giordano dà un altro giro di vite al suo avvitamento alla sedia già notevole. Beve un gran sorso di vino. 
Ma sì, il coming out! In “Tasmania” c’è una grande orgia a Guadalupa in cui il protagonista e la moglie, dopo aver conosciuto un’altra coppia di turisti alla spiaggia nudista, finiscono a letto tutti insieme. E lui, inaspettatamente, si dedica all’altro marito. Mi dica tutto!  “Ma è finzione!”, salta su lui. Tra l’altro sono appena stato a Guadalupa e quindi mi sono molto identificato tra quei branchi di turisti dall’aria triste in quei tropici dove piove sempre. E cercavo disperatamente un riferimento da mettere nei miei articoli, pensavo di essere in un romanzo di Houellebecq e invece ero in un romanzo di Paolo Giordano. Possiamo scrivere Giordano fluido? Dai, un po’ di fluidità non si nega a nessuno oggi! “No, non direi fluido, ecco. Diciamo sensuale”.

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Ma sensuale non vuol dire nulla. Ma che siamo negli anni Cinquanta. Mai una gioia. “Ma dai! Si sceglie la letteratura per non letteralizzare nulla”, fa lui. “Non le dirò nulla di più”. Quindi c’è roba. Silenzio. E poi: “Ma dai, mi ci vede, c’è stato a Guadalupa, ha visto che posto, le pare che faccio un’orgia, io?”. In effetti anche le scene di sesso sono paologiordanesche. Lei rovina tutto, però. E’ una specie di simmetrico di Houellebecq. In “Tasmania”, mentre il protagonista e la moglie si baciano, lui riflette sull’acqua in bottiglie di plastica (saranno riciclabili?). E dopo che le due coppie fanno sesso insieme, lui si affaccia alla finestra a riflettere sulle sorti del pianeta, con un’ampia digressione sui diversi tipi di nuvole (cumuliformi o lenticolari?). Ma sua moglie è una santa. “Ha sposato un romanziere!”, dice Giordano. E ride, e ordina altro cibo (è umano!). Dai! Le sto dando la possibilità di diventare finalmente simpatico!  Però voi scrittori Einaudi fate tutti così. Prima illudete il lettore, poi zac. Lagioia che dice “ah mi sono immedesimato tantissimo” nella storia della “Città dei vivi” e uno si aspetta robe gustosissime, invece salta fuori che è perché ha tirato delle bottiglie da un terrazzo a una festina di trent’anni fa. Lei che narra di queste orge ai Caraibi e poi niente. Pazienza. Ma se non avesse avuto successo col primo romanzo, avrebbe proseguito gli studi scientifici? “Sì, sarei andato avanti con la ricerca”. Ha mai rimpianti? “La ricerca mi piaceva, ma c’era qualcosa che mi diceva che non fosse proprio la mia strada. Quel fissarsi solo su un tema. Io sono più promiscuo. In questo, sì, sono promiscuo”.
 

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