Annalena Tonelli (foto Olycom)

in uscita

Annalena racconta Annalena. Il nuovo libro

Annalena Benini

Il nome che unisce due donne lontanissime, Benini e Tonelli, la lotta tra la paura del fuoco e il desiderio del fuoco (con la fissazione per i nasi). La scossa che dice: questo tu adesso lo scrivi

Il nome è anche mio. Mi hanno chiamata come lei, ma non per lei. 
C’è la zia Annalena che è sorella di mio nonno, ha compiuto novantadue anni ed è sempre bellissima. Annalena è anche una cugina che vive in Argentina. Quando ero bambina mia madre riceveva da lei lunghe lettere scritte fitte, in tutti gli spazi e fin negli angoli dei fogli di carta velina, perché le buste fossero più leggere, e adesso lunghe email che sembrano lo stesso di carta velina – a Buenos Aires ha una vita difficile e deve risparmiare su tutto: la figlia di suo fratello si chiama Annalena, è una ragazza che parla un po’ di italiano e va all’università, e in Argentina si scrive Analena, con una enne sola. Poi ci sono io, che da bambina avrei voluto un nome qualunque per sparire meglio. Mi chiamavano Altalena o Amarena, e io allora li spingevo giù dallo scivolo. Da più grande mi hanno chiamato anche Annabalena, Annabolena, Annaiena, Annalea, Annalia, Annarella, Maddalena, Annalisa, Elena.

Annalena è Annalena di Dio, nata a Forlì e uccisa a Borama nel 2003, a sessant’anni. Sua madre, detta la Divina, per la bellezza, era cugina di mio nonno Ludovico. I loro padri erano fratelli, Dante e Luigi Bignardi.

Ho letto della morte di Annalena Tonelli in prima pagina sul “Corriere della Sera” la mattina di lunedì 6 ottobre 2003, ho visto la sua fotografia grande e la scritta: Uccisa missionaria italiana in Somalia. Di più: Annalena, la santa fermata da un fucile. 
Si sarebbe infuriata a leggere: la santa. Ma io allora non lo sapevo, e anzi sapevo quasi solo che mia cugina missionaria era una santa.

Non l’hanno uccisa a casa sua, dove c’era un muro alto e una guardia che dormiva con la pistola sotto il letto: due sicari l’hanno aspettata fuori dall’ultimo ospedale che Annalena aveva costruito, dove curava i malati di Aids e di tubercolosi, dove si batteva contro l’infibulazione delle bambine e riusciva a convincere le madri a non permettere di tramandare quell’abominio sulle loro figlie (anche se molte dicevano: pure loro devono soffrire quello che abbiamo sofferto noi). 

Quella sera stava passando da un reparto all’altro, quindi si trovava all’aperto, al buio perché il sole era tramontato, erano già le otto e mezza e non si poteva contare sull’elettricità, e si era fermata a parlare con uno dei malati accampati all’esterno. Annalena parlava inglese e dialetto somalo con accento romagnolo. C’erano due infermiere, Koos e Khush, che camminavano una decina di metri davanti a lei e chiacchieravano tra loro. Era domenica (anche Ilaria Alpi è stata assassinata in Somalia di domenica: la domenica è un giorno in cui si uccidono le donne). 

Gli aiutanti di Annalena erano già a casa dalle loro famiglie. Sono stati avvertiti, si sono messi a correre a piedi verso l’ospedale. Hanno visto il sangue per terra e la fila di persone già pronte a donarlo per la donna italiana che aveva dato tutto per loro, ma Annalena è morta alle nove di sera senza mai aver ripreso conoscenza, ha soltanto ansimato un paio di volte. Nessuno saprà mai se ha visto in faccia chi l’ha uccisa. Però tutti quelli che le volevano bene e che l’hanno incontrata, e anche io che ho letto ogni sua parola, sanno che lei desiderava questo: morire in piedi.

Le ultime email che ha scritto da Borama sono piene di preoccupazione non per sé, ma per sua madre, anziana, che si era rotta il femore a Forlì. Annalena sperava di andare a trovarla in novembre, ma le hanno sparato in ottobre. Era anche molto angosciata per la situazione in cui si trovava: “Sono mesi di persecuzioni. Sono un agnello al macello, ogni giorno. Io sono al centro di un movimento violento, folle, tutto tenebra e male di caccia alle streghe, agli untori, di rifiuto di ciò che è diverso, di negazione della verità. La gente è affogata nell’ignoranza e pare starci bene”. Poiché era ormai molto famosa, poiché era una donna bianca e sola, poiché aveva potere e aveva rotto altri equilibri di potere, i fondamentalisti islamici volevano eliminarla. Screditarla, infangarla, assassinarla. 
Aveva sessant’anni, i capelli grigi lunghi che raccoglieva sempre dietro la testa, pesava meno di cinquanta chili ed era bellissima.

A lungo, nonostante fossimo parenti, nonostante lei fosse diventata suo malgrado tanto importante e conosciuta (dovrei dire famosa, ma le dispiacerebbe e io non ho più paura di sembrare mitomane ma mi dispiace ancora l’idea di dispiacerle), io ho saputo poco di Annalena. Solo le notizie superficiali, e quindi spesso le cose sbagliate. E ho fatto poche domande su di lei perché mi faceva paura quel nome che è il mio, ma anche, e l’ho capito con fatica, perché mi sono tenuta prudentemente, fiaccamente lontana dal fuoco: per sentirsi al sicuro, credevo, bisogna schivare la dismisura del dolore e dell’amore.

Per molto tempo ho voluto, e molte volte lo voglio ancora e quindi dentro di me si combatte una lotta tra il desiderio del fuoco e la paura del fuoco, nascondermi in un riparo che non possa fare male a nessuno ma soprattutto a me. Un passo indietro mi sembra ragionevole. Non dietro qualcun altro, ma proprio dietro me stessa. Un passo indietro significa: non farai figure di merda, starai dentro tutte le misure giuste, ti travestirai da portaombrelli o da pianta grassa quando ci sarà qualche casino, se proprio dovrai tuffarti dagli scogli alti fallo sempre a bomba, mai di testa. Risparmia le forze, pensa con la tua testa, sottolinea i libri con una matita grossa.

La mia prima figlia è nata diciassette anni fa, l’ho partorita con dolore e con amore e con molta sfiducia da parte dell’ostetrica che non credeva che Benedetta stesse davvero nascendo, almeno fino a quando non le è quasi finita in un occhio mentre si chinava controvoglia a controllare. E l’ho sentita calda, appoggiata sul mio petto alle tre di notte, ci siamo guardate e in quel momento lei ha smesso di piangere e io ho smesso di piangere e non me lo potrò dimenticare mai perché non mi sono mai sentita tanto forte, potente, invincibile, dopo aver gridato: non ce la faccio. Ce l’ho fatta, l’ho guardata e ho pensato subito che aveva un bel naso. Che sollievo.

Mi tormentava molto durante la gravidanza il pensiero del suo naso, dicevo: e se avrà il naso di suo padre? Come farà, poverina? Mi ero fissata con il naso. Mio marito diceva che ero pazza a pensare al naso e che comunque non esistono neonati con il naso da maschi adulti nasoni e che non potevo essere certa della forma definitiva di quel naso nemmeno a sei anni, a dieci anni, a dodici. Adesso posso dire che magari lui aveva ragione, ma che comunque mia figlia non ha preso il suo naso e solo questo conta. Ma ci ho messo molto tempo a capire con ogni parte di me, non solo con il corpo, non solo con l’amore, che lei era mia figlia e non mia sorella.

Avevo trent’anni, la tenevo in braccio, la allattavo, stavo sveglia a controllare il suo respiro, la riempivo di baci soprattutto su quel naso stupendo, piccolissimo, non avevo nessuna paura di quello che non sapevo, ma non riuscivo a pronunciare le parole: mia figlia. Mi si incastravano in gola, ma ancora prima di arrivare in gola era proprio il cervello che non riusciva a pensarle. Dicevo d’istinto: mia sorella, anzi dicevo “mia sorel”, e poi mi correggevo. Facevo sogni in cui la perdevo continuamente, mi cadeva dalle mani e spariva. Finiva sott’acqua. Finiva per aria. Non era lei, oppure era lei ma scivolava in un precipizio. Era lei ma molto più grande e non mi riconosceva. Non riuscivo ad accettare, in qualche angolo di me, la realtà di quella scossa gigantesca dell’essere: averla messa al mondo, essere sua madre per sempre. Dire mia figlia era davvero troppo.

Ancora adesso quando le telefono mi sbaglio e cerco prima il numero di mia sorella. Poi mi ricordo: ma lei è mia figlia, ha preso tre in fisica, ha perso le chiavi di casa, studia solo all’ultimo secondo disperandosi per tutta la durata di quel secondo, rimanda tutto a domani, è per forza mia figlia, sento la scossa e ridivento una madre, controllo il naso appena torna a casa. Davanti, di profilo, senza farmi accorgere. Ultimamente il naso è un po’ cambiato, durante l’adolescenza i nasi cambiano sempre, ma è comunque un naso che si è salvato grazie a me che mi sono concentrata così tanto. In ogni caso, tutto il resto delle cose che lei considera sbagliate è colpa mia, quindi il naso è solo un piccolo disastro evitato che io uso per difendermi dagli attacchi.

A volte, quando litighiamo, la chiamo con il nome di mia sorella, le urlo: ma Silvia!, e anche mia madre e mio padre la chiamano spesso Silvia, e in effetti anche io vengo chiamata in continuazione Silvia dai miei genitori, e insomma tutti dicono Silvia a tutti, anche mia zia a mia madre, preferiamo chiamarci Silvia, Silvia del resto non si oppone, quindi forse potremmo stabilire per comodità che Silvia è il vero nome di tutti noi, maschi compresi, e farla finita.

Si può vivere tutta la vita senza mai sentire una vera scossa? La scossa emotiva che mi fa sentire madre, la scossa emotiva che mi dice: questo tu adesso lo scrivi, la scossa emotiva che mi fa ridurre il cuore a un tappo di bottiglia se penso che quella persona potrebbe smettere di amarmi o morire. Si può fare tutto, anche senza scosse. Si può vivere molto bene anche al riparo dalle scosse. Oppure un giorno si apre una fessura, da qualche parte, e da quella fessura passano le scosse. Come un buco nei polmoni per far uscire l’acqua. Non sono colpi di vento, non sono fantasie momentanee, ma sono il processo di trasformazione di qualcosa che ho sempre avuto sotto gli occhi.

La vita di Annalena era sempre stata sotto i miei occhi, ma è stato in uno dei ventinove giorni che ho passato in ospedale per la polmonite, con la mia padella e il mio respiratore e la mia paura, che si è aperta una fessura per lei. Pensavo di continuo: e se muoio adesso, che ho fatto così poco? E poi non sono morta. E ho letto nelle lettere di Annalena: “E se morissi oggi? E se morissi senza avere amato di più?”.

E in una di quelle notti, seduta un po’ girata di fianco, verso la finestra da cui vedevo solo pezzi di buio, con la collana d’argento che tenevo fra le mani e che poi ho cacciato in fondo a un cassetto e non ho mai piú cercato, ho offerto un voto che non ho rispettato. Ho ricominciato a vivere tradendo subito una promessa, quindi ero sicuramente di nuovo io. Non so che cosa succederà, ma da molti anni abbiamo questo conto in sospeso, io e Dio, non saprei come altro chiamarlo, non vorrei chiamarlo in un altro modo: sarà comunque colpa mia, ce la vedremo noi due. Ma intanto mi sono salvata e sono andata incontro alla scossa e alla dismisura, almeno con il desiderio e con tutta la mia difficoltà a staccarmi da terra, con la fissazione sui nasi. Intanto mi sono salvata e ho incontrato Annalena. Grazie a lei ho ritrovato anche le altre, le donne capaci di ogni cosa.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.