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I romanzieri soffrono da sempre, perché l’autofiction tocca proprio a noi?

Marco Archetti

Proiezione, immaginazione, reinvenzione – tre sconosciute destinate a soccombere alla prevalenza dell’io che rinuncia a tutto il resto e cova solo sé stesso. Ma il romanzo dovrebbe essere il luogo della crisi, non della risoluzione

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Tutto – davvero tutto, ormai – meno che romanzo: comizio dell’anima, galoppatoio delle sfighe personali, evento promozionale della propria sensibilità. Peggio della morte del romanzo, solo l’agonia vanesia del romanziere: e giù coi romanzi-confessione (sempre fluviali), con l’epopea delle proprie nevrosi (sempre bernhardiane, ma solo nelle bandelle), coi sussulti di vita interiore (sempre vertiginosi). E con la cronaca bruta di sé stessi, di maternità e paternità mancate o realizzate, agognate o interrotte, di degenze e paturnie assortite – cammelli spensieratissimi, giacché definitivamente riscattati dall’assillo della cruna.

 

“La madre di Hoffmann era notoriamente isterica,” scriveva Otto Rank nel Doppio. Hoffmann stesso era strambo forte, ossessionato dall’ipnosi e dalla telepatia. Allucinato perenne, era tormentato dalla paura di diventare pazzo. In una nota del 6 novembre 1809 scritta nel suo diario, leggiamo: “Straordinaria anomalia al ballo di stasera! Mi sembra di vedere il mio io attraverso una lente che lo rifranga e lo moltiplichi. Tutte le figure che si agitano intorno a me sono altrettanti Io!”. Poi però non cincischiò con l’ombelico in mano, chiuse il diario e creò Medardus, protagonista del romanzo Gli elisir del diavolo. Di seguito Nataniele, il sinistro Coppelius e un capolavoro immortale come L’uomo della sabbia.

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Anche Jean Paul era tormentato dalla paura di impazzire e da ragazzo aveva avuto la visione del suo io sceso come un fulmine dal cielo e rimasto a scintillargli davanti. Nel periodo teologico di Lipsia questa visione si trasformò in uno spettro terrificante che – diceva – lo perseguitava. Ma non si lasciò terrificare: prese carta e penna e scrisse saggi sulla stupidità e sull’umorismo, infine creò il memorabile Setteformaggi, avvocato dei poveri.

 

Che dire di Edgar Allan Poe e della sua esistenza spaventosa? Perse i genitori all’età di due anni, poi la madre di un amico che amava – amava entrambi. Finì alcolizzato e oppiomane. A ventiquattro anni sposò una cugina di quattordici che morì di tisi ed ebbe il primo attacco di delirium tremens: epilettico e sofferente di ossessioni interrogative, un giorno rispose inventandosi Egaeus, il protagonista di uno dei suoi racconti più belli, Berenice.

 

Di Dostoevskij sappiamo tutto. Manie di persecuzione, ipersensibilità, permalosità patologica, epilessia, terrore di essere sepolto vivo, fissazioni sessuali e ricerca ossessiva di terrori mistici: creò un teatro popolato di schizofrenici e filosofi, di demoni e santi che ha pochi eguali – per vastità narrativa e morale – in tutta la storia della letteratura. Heine diceva di aver vissuto la vita di un prozio per tutta la giovinezza. Maupassant non si sentiva tanto bene. Fabrizio Del Dongo, protagonista della Certosa di Parma, passava da un letto all’altro supplendo ai dolorosi insuccessi del suo creatore Stendhal, che aveva creato anche il proprio nome perché si chiamava Marie-Henri Beyle, uno capace di mentire fin sulla lapide dicendosi milanese anche se era di Grenoble, che odiava poco meno di quanto odiasse suo padre. Con le donne Stendhal aveva più di un problema: diceva di avere le gambette corte, il ventre pendulo e la faccia da macellaio, e di sapere benissimo che nessuna femmina l’avrebbe mai guardato con gli occhi rapiti di Madame de Rênal per il suo Julien. Così quelle donne e quegli sguardi li inventò nei romanzi. Per nostra fortuna. Perché se fosse uno scrittore autofinzionale di oggi, ci ricatterebbe con uno jodel doloristico sulla Grenoble del suo scontento e con un bel romanzo-denuncia sulla fragilità e la voglia di riscatto, con doviziosa elencazione delle turbe sopraggiunte a causa di, e delle disfunzionalità emersa a partire da (questo perché lo scrittore autofinzionale parla e scrive sempre in psicanalistese frivolo).

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Proiezione, immaginazione, reinvenzione – tre sconosciute destinate a soccombere alla prevalenza dell’io che rinuncia a tutto il resto e cova solo sé stesso? Fine della bugia, requiem della catarsi? Ma il romanzo è il romanzo. E dovrebbe essere il luogo della crisi, non della risoluzione; uno scudo riflettente, lo stesso grazie al quale Perseo può guardare negli occhi la Gorgone senza restarne impietrito.

 

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“Che mestiere fai?”. Rispondeva Moravia: “Racconto balle”. Scrive Zweig, nella biografia dedicata: “Stendhal mentiva volentieri, con lo scopo di non far apparire la sua personalità più autentica”, dunque bene, benissimo, ecco il simbolo dello scrittore per eccellenza, il vero nostro eroe della sacrosanta mistificazione, nemico giuratissimo della letteratura onesta e tutta visceri che ormai dilaga.

 

Ultimo dubbio. Chissà che anche l’ossessione per le riscritture dei romanzi – pare che passeremo per le fesse spazzole anche le pagine di Agatha Christie – non siano altro che il volto drammatico del ribaltamento di significato di cui soffre la letteratura: un luogo in cui trionfano le (corrette) conclusioni, non il luogo in cui deragliano tutte le premesse.

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