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il libro

"Thomas l’Oscuro" sembra un romanzo, ma non lo è. Blanchot riesce a fondere filosofia e letteratura

Elisa Veronica Zucchi

Nella sua prima opera l'intellettuale francese mostra la sua doppia natura di filosofo e scrittore. Il libro è il preludio di qualcosa e in esso, il linguaggio utilizzato diventa il simulacro dell'assenza

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Pubblicato da Gallimard nel 1941, finora inedito in Italia, Thomas l’Oscuro, il primo romanzo di Maurice Blanchot, è adesso in libreria (il Saggiatore,  trad. Francesco Fogliotti, 144 pp.). La figura di Blanchot, filosofo e scrittore francese, amico, fra gli altri, di Bataille, Lévinas e Derrida, è stata decisiva per la riflessione sulla letteratura del Novecento, e non solo. In lui filosofia e letteratura si integrano l’un l’altra. Questo libro ne è un esempio lampante.

A una prima occhiata, Thomas l’Oscuro sembrerebbe il preludio di un romanzo, ovvero la descrizione dell’accordatura degli strumenti nel golfo mistico prima di un concerto. Pare che la prova perduri e che quel concerto non si tenga perché la musica che si vorrebbe eseguire non è udibile. Invece ha luogo, ma altrove; la musica giunge confusa perché lontana, e tuttavia siamo al cospetto di uno stile narrativo che le appartiene profondamente. Secondo Blanchot, il linguaggio più intimo si forma nell’assenza di potere e di possesso, e perciò è così distante dal mondo, pur celandosi anche nell’aldiqua. Ma la narrazione non è solo la metafora dell’accadere del linguaggio, quanto l’esplorazione della possibilità più estrema di cogliere l’inudibile. Ciò è possibile solo allontanandosi, separandosi dalla coscienza diurna per entrare nell’incoscienza dell’oscurità. Tale congedo ha un prezzo: lo stigma dell’esilio è una ferita che, tuttavia, pian piano, si anestetizza.

Qual è la vera malattia che ci affligge, se più originaria della malattia è, per il pensatore francese, la percezione di un liquido amniotico, di una riappacificazione originaria? Thomas l’Oscuro nuota, via via spossessandosi di sé, assentandosi. “Il suo avanzare è più apparente che reale”, è un “viaggio interminabile con un’assenza di organismo in un’assenza di mare”, tanto che sembra nuotare anche quando cammina, mangia, legge o ama Anne, una donna in fin di vita. Egli lascia alle spalle il dubbio amletico fra essere e non essere per approdare ad una “inoperosità eterna”, che è lucidità estrema e, al contempo, sonno, o meglio, sguardo notturno. Da questo luogo lontano e estraneo possiamo vedere baluginare un orizzonte impersonale, dove quasi nessuno più appare, che ci consegna alla Notte, da sempre in esilio.

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In questo altrove trasfigurato (metamorfizzante al punto che ciascuno non solo si sente il sosia di sé stesso, ma financo si frange nella sua inessenzialità) lo sguardo si acceca, poiché scompare mentre diviene oggetto di sé stesso: tocca l’invisibile, sfiora la durata. Gli “angeli delle parole” attraversano quel punto oscuro, da cui si ode un incessante mormorio, preludio di un altro linguaggio, più prossimo all’ombra e al canto di Orfeo. Il linguaggio diviene il simulacro di un’assenza, che è al contempo una presenza, ambigua e affascinante.

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Nel saggio Lo spazio letterario (il Saggiatore, 2018) Blanchot si interroga sul movimento che accomuna il parlare poeticamente e lo sparire, e si chiede cosa sia quella che si potrebbe chiamare l’“esigenza di scomparire”, propria di scrittori e poeti come Kafka, Mallarmé, Rilke, Hölderlin. Inoltre indica, nell’esergo, il capitolo Lo sguardo di Orfeo come “il punto verso il quale il libro sembra dirigersi”. Come la sostanza dell’opera forma lo scrittore e, al contempo, lo annulla, così il canto di Orfeo appare mentre scompare, con Euridice, nell’Ade: “Voltandosi verso Euridice, Orfeo rovina l’opera, l’opera si rovina immantinente e Euridice fa ritorno nell’ombra”, poiché “lui stesso, la poesia eterna, entra nel proprio scomparire, in cui si identifica con la potenza che lo strazia e diviene così la pura contraddizione”.

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