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a Venezia

Pinault salva le foto di Condé Nast dalla crisi e le espone a Palazzo Grassi

Giulio Silvano

Una timeline dagli anni Dieci alla fine degli anni Settanta in una mostra dal titolo Chronorama, curata da Matthieu Humery. Si vede il passaggio dall’illustrazione alla foto, il modo in cui non solo cambiano le tecniche, ma il gusto, nella moda e negli interni, nell’architettura e nella scelta delle star

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Quando gli imperi crollano serve qualcuno che dalle città in fiamme possa salvare le opere d’arte. I supereroi del lusso servono oggi a questo, salvare il salvabile di quelle istituzioni borghesi che iniziano a morire e metterlo in una teca. I Pinault, dalla nave in balia delle onde che è Condé Nast, hanno messo all’asciutto una parte del monumentale archivio fotografico di quelle riviste che hanno mostrato e fatto la storia, settato trend, raccontato i consumi, lanciato carriere, come Vogue e Vanity Fair. L’editoria rallenta la sua crisi vendendo i gioielli di famiglia, firmati da Irving Penn o da Helmut Newton. E così, per mostrare il nuovo acquisto, la nuova aggiunta alla collezione, nelle sale di Palazzo Grassi a Venezia vengono appese oltre quattrocento foto, selezionate tra i migliaia di scatti ora nelle mani di Pinault.

 

Una timeline dagli anni Dieci alla fine degli anni Settanta in una mostra dal titolo Chronorama, curata da Matthieu Humery. Perché fino alla fine dei Settanta? Perché allora le fotografie erano delle riviste, poi con una nuova legge sul copyright diventano degli autori, almeno in America. In questi decenni, camminando tra le sale del palazzone sul Canal Grande, rimodernizzato da Tadao Ando, vediamo il passaggio dall’illustrazione alla foto, il modo in cui non solo cambiano le tecniche, ma il gusto, nella moda e negli interni, nell’architettura e nella scelta delle star. Celebrità, tantissime, ritratte in posa per diventare icone, e si potrebbe fare una lista che riempirebbe una pagina intera di questi individui immediatamente riconoscibili, un indice, una guest list da sogno, che va da Charlie Chaplin a Ernest Hemingway, da Susan Sontag a Charles de Gaulle, da Stalin a Niki de Saint Phalle, da Le Corbusier a Nureyev, da Jack Nicholson a Winston Churchill… Una storia dell’occidente tramite i volti noti – bellissimo il ritrattone di Joyce con la benda, e quello di Lagerfeld col monocolo – e sarebbe interessante vedere anche chi non ce l’ha fatta, chi sono stati gli scrittori, le attrici e i VIP che magari cinquant’anni fa erano sulla cresta dell’onda e poi sono stati dimenticati, e oggi a vederli appesi non ci direbbero nulla. Non solo ritrattoni, anche modelle e scene dai set di 2001: Odissea nello spazio o Blow Up. Ecco cosa resta, ecco cosa piaceva quaranta, cinquanta, sessant’anni fa che ancora oggi troviamo glam. Ecco chi ha superato le sabbie del tempo per restare oggi e finire, una foto nella foto, su qualche profilo Instagram.

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Cosa sono le riviste? Oggetti effimeri, che vivono finché non esce il numero successivo – che sia mensile, o settimanale, o bimestrale – e poi muoiono, si buttano via. Tenerle impilate per anni fa finire in quei programmi di Real Time, tipo Sepolti in casa, dove l’accumulo diventa sintomo di una patologia. Nasce, la rivista, per esser sfogliata, e le fotografie che ci finiscono dentro vengono guardate, a volte solamente per qualche secondo, in una sala d’attesa, dalla parrucchiera, in coda al gate, in spiaggia. Incorniciare queste foto vuol dire, oltre che celebrare il passato, salvare l’effimero della rivista, estrapolare un elemento nato per essere fugace,  per avere una precisa data di scadenza, e farlo diventare un’opera musealizzata. Ogni foto appesa è un tentativo di cristallizzare il tempo. “Ogni fotografia è dunque un atto giornalistico”, scrive nel catalogo Anna Wintour, per oltre trent’anni direttrice di Vogue. “Questa persona è rappresentativa dei nostri tempi, questi abiti descrivono l’epoca in cui viviamo, questo edificio o questo oggetto spiegano la nostra èra. Il giornalismo è arte? Certamente”. 

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