inno alla milanesità

Fotoromanzo milanese. La città del boom e delle periferie nel mondo di Giovanni Testori

Michele Masneri

“Fotoromanzo Testori”, nel centenario della sua nascita e nel trentennale della morte una mostra racconta la Milano dello scrittore lombardo

E’ (anche) un inno alla milanesità “Fotoromanzo Testori”, la mostra dedicata allo scrittore lombardo curata dal nipote e tutore delle memorie di famiglia Giuseppe Frangi, in quel di Novate Milanese. Nel centenario della nascita e nel trentennale della morte di Giovanni Testori (1923-1993) si arriva a Novate col trenino da Cadorna, lo stesso che prendeva lui, comodissimo, venti minuti, anche se lui il treno lo soffriva, più che altro il rumore. Non erano ancora i tempi delle dispute su Milano sì o Milano no, anzi forse c’erano già, e lui si trasferiva volentieri in un residence in Porta Romana per non sentir lo sferragliare dei convogli, o al Palace di Varese o meglio ancora nella heimat di Lasnigo tra le memorie materne. La casa di Novate, oggi “Casa Testori” aperta a pubblico e studiosi, sobrio e grazioso villino anni Trenta appunto davanti alla ferrovia, con gran magnolia in giardino che risplende  nel nuovo sole lombardo, sta accanto al capannone di famiglia dove ancor oggi i cugini portano avanti il business degli inizi (tessuti industriali, filtri e feltri) e anche questo è assai lombardo. E lì, convivenze tra industria e letteratura e famiglie omogenitoriali d’antan: viene in mente guardando i cimeli e immaginando i ménage lo strepitoso romanzo di Colm Tóibín “Il mago” appena uscito da Einaudi su un’altra dinastia industrial-letteraria d’eccezione, i Mann, e anche lì testamenti, tormenti, esaurimenti, chiusure di attività e ditte.

 

Amori e amorazzi sempre vicino all’azienda o al fantasma dell’azienda. Nel ’69 Testori ha un gran esaurimento a causa di una bega familiare per degli affari. E suicidi: una gran massa di suicidi com’è noto nella famiglia Mann, qui solo il papà di Alain Toubas, grande amore testoriano, attore e gallerista e inizialmente protagonista di fotoromanzi un po’ Massimo Ciavarro (da cui anche il titolo della mostra). Belloccione francese conosciuto a Parigi nel ’58 che causerà sfracelli nella Milano del Dopoguerra. Bello e maledetto, anzi benedetto, come scrive Testori in una poesia. Recita nell’“Ambleto”, della trilogia degli Scarrozzanti testoriana, teatro povero e randagio, facendo il “franzese” (ma con nome di Alain Corot); reciterà nel grandioso “Ludwig” di Visconti causando isteria al regista comitale, che lo caccia e lo fa sostituire, con sommo scandalo, da un elettricista (Giovanni Agosti racconta in quell’altro gran libro su Visconti che era  una piccola scena, una scenina, ma Toubas sbaglia accento, dice “the king was hill”, “hill, con la acca”, invece che “ill”, malato, e il conte-regista alla terza volta fa una cosa molto viscontiana, lo caccia, prende un elettricista e dà la parte a lui. Fine, poi ci saranno odii feroci e dei versetti satanici di Testori contro il conte, poi una riappacificazione). 

 

Back to Novate. Tra una cucina con ancora le sue piastrelle bianche e le fughe nere e  corridoi e armadi con dentro le vecchie coperte pesanti di quelle che se cascavano non le tiravi più su, ogni stanza racconta una parte della vita e dell’opra testoriana. C’è lo studio di via Brera 8, col suo numero di telefono, 80589595, cuore del Testori pittore; c’è una foto di Alexander Iolas, e un giorno bisognerà scrivere una  serie sugli amori dei galleristi milanesi della Milano del boom, tra Iolas, Anselmino, Tazzoli, con incursioni nel mondo torinese delle auto. Ma tornando a questo Alain, appare in foto anche sottopalco alla Scala con Testori ad applaudire la loro idola Renata Tebaldi, è la Milano di quegli anni lì, si va alla Scala ma si viaggia non in Uber come i giovanotti “bien” oggi, bensì soprattutto in treno e tram. “Testori 8:43”, libro di Ambrogio Borsani, secondo l’orario del convoglio TreNord, raduna impressioni ed esperienze  testoriane; c’è un video in cui tutta la famiglia lascia la Novate-Lubecca milanese per recarsi a Roma a vedere la prima dell’Arialda (1960), inconsapevoli delle censure e dell’enorme scandalo a venire per un personaggio gay nonostante il cast stellare (Rina Morelli, Paolo Stoppa, Umberto Orsini, Pupella Maggio, Lucilla Morlacchi, regia di Visconti).

 

E’ quella Milano lì, mentre il papà di Visconti, il duca Giuseppe, personaggissimo, industriosissimo, poliedricissimo, è morto da vent’anni, dopo aver costruito la sua personale San Simeon a Grazzano (poi Grazzano Visconti grazie all’amicizia col Re, del resto lui molto introdotto a Corte organizzava  soprattutto balli di puntigliosissima maschera per le Loro Maestà. Si dice anche che tra la villa Visconti dentro villa Ada a Roma ci fosse un tunnel che portava alla villa Savoia, ma non si è mai verificato). Ma il duca Giuseppe non vive nel passato, anzi. Ha anche lui “lasienda”. Prosegue spedito con la manifattura di velluti (la ancor oggi funzionante Visconti di Modrone), e grazie al core business della moglie (Carla Erba, dei farmaci) mette su un  brand di profumi di gran successo, tipo Montezemolo con l’Acqua di Parma.

 

A un certo punto si inventano un concorso – e qui siamo in un film appena visto, “Cipria. Il film della vostra vita” al cinema in questi giorni, storia incredibile di un premio, appunto ideato da Visconti, che a un certo punto aveva assoldato Dino Villani, un pre-Armando Testa, il pubblicitario più celebre d’Italia, e insieme lanciano “Velveris”, velo di primavera, nuovo prodotto dalla cosmetica viscontiana. Le donne italiane sono invitate a mandare un racconto, vero, sulla loro vita, le storie più belle verranno poi pubblicate da L’Illustrazione del Popolo e radio sceneggiate. Il primo premio è di 10.000 lire (5.000 al secondo e al terzo), e porterà a un film, appunto “il Film della vostra vita”. A sovrintendere al tutto è Cesare Zavattini, mentre la giuria è composta dallo stesso Zavattini, Visconti figlio, Alba de Cespedes e Vittorio De Sica. A far andare tutto all’aria arriva la guerra, e non se ne farà niente. Ma intanto arrivano le lettere, oltre diecimila, le donne italiane raccontano le loro storie. Il film, di Giovanni Piperno e Anna Villari, ricostruisce minuziosamente quelle storie e le “monta” su filmati dell’epoca che non c’entrano niente ma che ci si sposano in maniera molto poetica, più veri del vero. Filmati recuperati in tanti archivi e anche grazie a “Home movies”, che raduna i filmini privati delle famiglie d’Italia (che storia). Al centro l’epopea della vincitrice, Maria Andrea, nubile e ambiziosa impiegata, diplomata maestra e figlia unica di agricoltore ricco che l’ha fatta studiare,  e va a vivere in città; e questa Maria potrebbe essere una buona amica della Maria Brasca,  altro personaggio testoriano.

 

Protagonista del racconto che esce a cavallo del 1960 nella serie dei “Misteri di Milano”, e viene interpretata a teatro da una giovane Franca Valeri che qui si vede in foto con la sua aria milanese trasognata. La Maria Brasca è operaia di calzificio che vuole a tutti i costi il suo Romeo, il Romeo Camisasca, fannullone e delinquentello, insomma variazione del romano sfessato che la sua omologa solo più liquida farà nel “Vedovo” quasi contemporaneamente. Altre foto, altro teatro: ecco la giovane Andrée Ruth Shammah, siamo agli esordi del Franco Parenti che (altro anniversario) non si chiama ancora così. E’ il Salone Pier Lombardo, un ex cinema senza riscaldamento, che viene scelto programmaticamente: un posto fuori, via dai teatri ufficiali; per segnalare la rottura, quando andare nelle periferie non era cool (altro che Bagni misteriosi!).

 

Nasce insieme anche la compagnia omonima, compagnia che ben riflette quel che bolle e ribolle nella Milano dei primi anni Settanta, quella del delitto Calabresi, delle fabbriche, della crisi. Però la creatività come al solito milanese che va di passo con l’industria. E se i primi stilisti e designer esteri cominciano a scoprire le attrattive del “modello Milano”, la mini-metropoli densa, intanto nasce questa piccola Onu teatrale: a farne parte ci sono un cattolico (Testori); un’ebrea (Andrée Ruth Shammah); un comunista (Franco Parenti). C’è anche il maggior filologo italiano, Dante Isella,  garante della triplice intesa. Pietro Lombardo, incidentale dedicatario della strada, fu invece vescovo medievale di Parigi, celebre per i suoi Libri Quattuor Sententiarum con cui mette ordine tra le fonti della teologia. Nel cinema poi teatro a lui intitolato si cerca invece un ordine tra una gran tradizione e una gran libertà espressiva.


Oggi tutto questo pare facile ma all’epoca  piaceva pochissimo. Un giorno Parenti – già star, già grand’attore – viene invitato, in piena campagna elettorale, da Nilde Iotti (compagna del capo del Pci) a recitare qualcosa a una serata tutta di donne elettrici, e quello tira fuori La Ninetta del Verzee, grande hit portiana, nel senso di Carlo Porta; storia di un’ex  venditrice di pesce all’antico mercato di Milano, il Verziere appunto, che a seguito di un amore infelice e truffaldino si vede costretta a prostituirsi. La cosa non viene per niente apprezzata, Iotti si lamenta di brutto. Parenti rischiava peraltro già da un pezzo l’espulsione dal Pci. Dario Fo già se n’era andato. Anche il Pci, dice Parenti, è parte di una Santa Alleanza della conservazione. Un giorno incontra Paolo Grassi, che conosce dall’adolescenza. E quello: “La prego di darmi del lei”. “Ci sono due modi diversi di fare teatro di opposizione”, dirà Parenti intervistato da Giorgio Bocca. “Uno è quello di Fo, esplicito, dichiarato, quasi da manifesto. E poi quello del Pier Lombardo, il nostro, che punta sulla fantasia, sulla libertà, sulla convinzione che la verità è sempre rivoluzionaria”. 

 

Ma Testori esce anche fuori dai teatri. Anticipando i fashion designer si impadronisce per il suo teatro di parti della città inusitate. Ecco la stazione Centrale ancora priva di scale mobili, prima delle sfilate Trussardi, e molto prima delle bande di borseggiatrici riprese oggi dai profili Instagram, qui invece “set” di  “In exitu” del 1978, con Franco Branciaroli, storia di un tossico omosessuale che ripercorre i momenti segnanti della sua vita prima di morire per il definitivo buco in una latrina della stessa Centrale. Siamo nella Milano su cui si abbatte la triplice mannaia degli anni di piombo, della crisi, della criminalità alla Vallanzasca.

 

Che paura. Meglio tornare a Novate: ecco in foto Ornella Vanoni, ecco i due Longhi, lui, maestro dei meglio scriventi italiani, e “la banteuse”, Anna Banti, coppia fondamentale a Testori, che si occuperà di entrambe le eulogie funebri. Non può mancare a questo punto Alberto Arbasino. Del resto tra “smandrappata”, “casalinga di Voghera”, “tormentone”, le tre fasi dell’intellettuale italiano (“brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro”) non va dimenticato un altro suo “claim”, quel “nipotini dell’Ingegnere”, dove l’Ingegnere è ovviamente Gadda: e tra i nipotini insieme allo stesso Arba, e a Pasolini, c’è proprio Testori. I tre si dividono i regni, geopolitici e linguistici: per Arbasino “il lavoro più giusto e difficile che si possa fare oggi con la nostra lingua è proprio quello di reinventare sulla pagina anche con virgolette e corsivi il miglior sound dell’italiano parlato (che è veloce e divertente perché fitto di gesti e ammicchi, senza far pesare troppo le fatiche e pene)”. Lo scrittore di Voghera si costruisce così un italiano fluido da Erasmus di lusso (con molti debiti da “ekfrasis” proprio a Longhi). Pasolini scende giù a Roma e tirerà fuori un romanesco basico sui pratoni della capitale. Testori invece non si muove: tra Novate e la bassa indaga la Padania e crea i suoi personaggi poveri, disgraziati, “pasoliniani” cioè subproletari, ma molto diversi dai Ragazzi di vita. Sono soprattutto donne, le sue eroine (come spesso succede da quelle parti): l’Arialda, la Maria Brasca, la Gilda del Mac Mahon sono quasi sempre operose ragazze lombarde molto fiduciose nell’avvenire, e poi raggirate o sfruttate da bellimbusti sfaticati (e si sa che a Milano il non faticare è peccato mortale). Oggi ci metterebbe dentro sicuramente una rider, una borseggiatrice  pentita e costretta dal bruto, e una influencer di Rozzano che sogna CityLife.

 

Nella comédie humaine testoriana subito si inserisce l’immigrazione, che porta nuove dinamiche sociali e anche nuova linfa alla lingua in una città da sempre accogliente anche nel vocabolario: tanti Rocco e suoi fratelli che prontamente Testori registra e integra. La spinta arriva come sempre dal Sud, e produce al leggendario Derby generazioni di comici col gramelot pugliese e calabrese poi celebratissimi. Ma oggi che Milano si conferma grande capitale aspirazionale per talenti e carriere, nonostante le polemiche, forse questi pugliesi e calabresi son stati sostituiti dai romani in fuga dalla capitale svaporata e cadente (si vede anche dai ristoranti: Felice a Testaccio e altri, come se a un certo punto sorgesse la nostalgia della porchetta tra gli émigrés). E li vedi, anche nei ristoranti, tra “sticazzi” e “mecojoni” mai davvero compresi, qui, tra il milanenglish dei “revenues” e dei “kappa” al posto dei mille, i tanti managerini e “ceo” in subaffitto nella città dei quindici minuti che si allarga sempre più, tra gli acronimi costosissimi nelle più rivalutate Nolo e Pradate: e vuoi vedere che, allarga allarga, si arriva pure a Novate Milanese?

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).