Foto di Matteo Bazzi, via Ansa 

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Il Maggio fiorentino ha divorato il suo ennesimo sovrintendente

Alberto Mattioli

Alexander Pereira pensava che contassero i risultati. E la burocrazia? E i veleni fiorentini? Non è finita bene e ora si aspetta il prossimo salvatore 

Confesso: anch’io sono stato invitato a pranzo da Alexander Pereira a casa sua. Era domenica 10 gennaio 2021, prima di una matinée di Linda di Chamounix (bisogna essere molto precisi, in vista dei futuri interrogatori). Come spettacolo, quasi meglio di Donizetti fu vedere il sovrintendente e direttore artistico del Maggio musicale fiorentino in accappatoio di spugna bianco mentre nella sua enorme cucina spignattava in prima persona squisitezze asburgiche, mitteleuropee, kakanie: memorabile, in particolare, lo strudel.

 

Oggi viene il dubbio: la carne del gulasch sarà stata acquistata con la carta di credito del teatro o con la sua? E, nel primo caso, si configura la spesa di rappresentanza, benché io non rappresenti alcunché, o il sordido peculato? C’è poi l’altra faccenda, quella dei famigerati 35 milioni che avrebbero dovuto servire per abbattere il debito del Maggio e che invece sono stati usati, pare, per pagare stipendi e fornitori, e qui altra indagine con la Procura che chiede anche l’interdizione. Nel frattempo, Pereira si è dimesso su sollecitazione del sindaco ridens Nardella che pure a fine 2019 l’aveva fortissimamente voluto, paragonandolo a Batistuta. Già impazza il toto successore, Fuortes sì o Fuortes no al termine di una complicata partita di giro di poltrone, musicali e non visto che tutto inizia dalla Rai (per inciso, Fuortes è riuscito a trasformare in un teatro vero perfino l’Opera di Roma, quindi i titoli per andare al Maggio li avrebbe tutti. Però è una “piazza” tossica quindi: Carlo, non farlo!).

 

Intanto Firenze ha divorato il suo ennesimo sovrintendente. Chiunque arrivi viene immediatamente triturato dal continuo capzioso inarrestabile polemizzare locale, una guerra per bande che dura dai tempi dei guelfi e dei ghibellini, e beninteso senza che qualcuno tiri mai fuori qualche fiorino per il Maggio amatissimo a chiacchiere. E poi: una città che tuttora si picca di essere una capitale culturale, manco fossimo ancora nel Quattrocento, non è stata capace di costruire un teatro decente, e dire che ormai ne fanno di bellissimi ovunque, dalla Cina all’Arabia (e qui, con tutto quel Rinascimento, il disastro). Ovvio che Pereira fosse la classica persona giusta al posto sbagliato.

 

E tuttavia non ha fatto male. Ha gestito la pandemia, ha trovato degli sponsor, si è assicurato Daniele Gatti come direttore musicale e non ha peggiorato i conti pur facendo molti spettacoli, forse troppi, ma alcuni sicuramente memorabili: Il ritorno d’Ulisse in patria di Carsen, l’Alcina Bartoli-Capuano-Michieletto, l’ultimo Doktor Faust Meister-Livermore, magnifico. Paga la sua allegra noncuranza per la burocrazia, il suo infischiarsene della ricevuta in triplice copia e dell’allegato A, la sua disinvoltura guascona e arrembante. Paradossale ma vero: Pereira, che di tutti i sovrintendenti europei è quello che ricorda di più i vecchi impresari filibustieri e geniali dell’Ottocento, i Barbaja, i Merelli, i Lanari (visto che siamo a Firenze), è in realtà un candido, convinto che contino i risultati.

 

In Italia, si sa, non è così. Come quando agganciò per la Scala i sauditi ma si mosse troppo in fretta e troppo da solo permettendo così alle demi-vierges di una politica ridicola di fingersi scandalizzate, bloccare l’affare, e dire addio a vagonate di petrodollari. Lui, che aveva trasformato l’Opernhaus di Zurigo nel primo teatro d’Europa, dove si andava a fare indigestione d’opera con le famose doppiette, un titolo al pomeriggio e uno alla sera, lui che a Salisburgo aveva fatto faville, già alla Scala aveva funzionato di meno, alle prese con la burocrazia, il ministero, i sindacati, i salottini dei risottini: più difficile che salire su un elicottero e andare a convincere qualche magnate che il modo migliore di spendere il proprio denaro era aiutarlo a scritturare Pinco o Pallino.

 

A Firenze è andata peggio ed è finita malissimo, forse anche per colpa sua, per non aver mai voluto capire che non è una Salisburgo sull’Arno ma una città di provincia con attese e pretese da capitale, salvo poi scoprire di non potersi permettere cartelloni da metropoli vera e, ovviamente, lamentarsene. 

 

Adesso Pereira se n’è andato, con una lettera molto dignitosa nel suo italiano da viennese del Settecento. Al Maggio, che pure una storia gloriosa effettivamente l’ha, e ha pure un’orchestra e un coro ottimi (e ha anche molti debiti, però), si aspetta il salvatore, avanti il prossimo. Dal giorno in cui arriverà, si comincerà a rimpiangere Pereira. E stavolta, forse, con qualche ragione.

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