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Il dolce martirio di Sant’Agata. Viaggio a Catania

Caterina Di Terlizzi
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Solo il Covid-19, in Sicilia, poteva fermare una delle feste religiose più importanti del mondo, ma solo per poco. Sono oltre un milione i fedeli e i visitatori che, nelle giornate del 3, 4 e 5 di febbraio, attraversano le strade della città di Catania ripercorrendo le tappe e i luoghi simbolo della vita di Sant’Agata, martirizzata nel 251 d.C. dal proconsole romano Quinziano, per aver rinnegato il suo amore per devozione. Da allora è patrona locale amatissima.

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Il tre febbraio, tra via Etnea addobbata con archi luminosi, la gastronomia tipica della festa - banchetti di torrone, olivette verdi di Sant’Agata fatte con la pasta di mandorla e cedri salati - si sono aperte le celebrazioni. Quattordici candelore di legno intagliato rappresentanti arti e mestieri si sono innalzate al cielo, sulle possenti spalle dei portatori, pronti a farle sfilare per la città.

 

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In ordine, Il primo e il più piccolo è il cereo di Monsignor Ventimiglia, del 1776, secondo il Primo Cereo Rinoti del quartiere periferico di San Giuseppe La Rena. Dietro di loro, la gotica ‘riggina’ dei fiorai, “unica perché di stile gotico veneziano”, ci dice Giovanni Compagnino ex portatore della candelora e presidente dei fiorai.

  

A passo svelto marceranno non solo il tre febbraio ma anche i giorni successivi, i pescivendoli con la ‘Birsagghiera’, la candelora più veloce di tutte. È comandata da un capo ‘chiumma’ (ciurma) e da quando si alza, a quando si posa, il passo degli otto uomini deve essere veloce. “La nostra è difficile sia per il peso che come movimento, bisogna avere le qualità per spostarla” conclude, fiero dei suoi ragazzi, il presidente Giampiero Napoli. Avanzano anche i fruttivendoli che danno movimento sinuoso e femminile alla loro candelora gotica soprannominata la ‘signurina’. A seguire i macellai poi, alle loro spalle, i pizzicagnoli, i venditori di formaggio con il cereo in stile liberty. All’improvviso un portatore dei pizzicagnoli gira la testa e l’occhio gli cade sui piedi imponenti ed enormi alla base, della candelora dei pastari. “Il cero al suo interno è l’unico a essere rimasto originale, gli altri lo hanno di plastica, questo è un enorme ma semplice candeliere senza segni del martirio di Agata: ciò che lo distingue da tutti”, ci racconta il presidente della corporazione Alessandro Buda.

  

Da lontano si sente: “Il nostro cereo è il più alto ed è l’unico a essere trasportato da dieci uomini, tre davanti, tre dietro e quattro laterali”. Gaetano Arcidiacono, è sia presidente che uno dei portatori più giovani dei bettolieri, i vinaioli. “essere un uomo di forza è difficilissimo, per reggere tutto quel peso sulle spalle bisogna essere molto devoti altrimenti diventa insopportabile”.

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I vinaioli hanno il fiato sul collo per l’avanzare della grandissima e incombente candelora neoclassica dei panettieri presieduta da Michele Arcidiacono. “È la più pesante, oltre una tonnellata, e l’unica ad avere dodici portatori. Viene sopranominata ‘a mamma’ di tutte le candelore per la sua stazza e storicità, a differenza dei pastari, ha rappresentate tutte le scene del martirio della santa”. Concludono il cereo del villaggio di Sant'Agata, quello dei mastri artigiani, dei devoti e del circolo di Sant'Agata. La forma, l’andatura e l’ondeggiare sono le identità date dai devoti a ogni candelora e tutti vogliono esaltarne le qualità. Finisce la sfilata, la festa si avvicina e la suggestione aumenta.

   

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Il quattro mattina con l’alba dalle rosee dita, il primo abbraccio del popolo alla sua santa patrona con la “Messa dell’Aurora”, subito dopo, il simulacro esce dalla cattedrale di Sant’Agata e i devoti vestiti con l’abito tradizionale: camice (sacco) di tela bianco stretto in vita da un cordoncino a ricordare il cilicio, guanti, cappello (la scuzzetta) nero dipinto spesso anche nei quadri di Antonello da Messina e fazzoletto svolazzante, aspettano la “Santuzza”. Il busto sontuosamente ingioiellato e lo scrigno che custodisce le reliquie di Agata vengono sistemati sul prezioso fercolo d’argento foderato di velluto rosso. Da Piazza Duomo inizia la processione che porta ai quartieri più popolari toccando i luoghi del martirio. Tuonano a tutte le tappe i fuochi d’artificio, che sveglia coi botti un cielo ancora un po' addormentato. Il fumo pennella l’orizzonte ormai azzurro.

    

Dalla terrazza verso il mare dell’incredibile Palazzo Biscari, il principe Ruggero Moncada aspetta il passaggio di Agata e racconta: “La Santa non è una cosa normale, il rapporto che il devoto ha con lei è un rapporto carnale. Quando si incontrano il devoto esclama ‘Bedda, avi n’annu ca un ti viru’ (è un anno che non ti vedo) come se fosse un fidanzato che parla alla sua amata”. La devozione si sente fino alla morte della voce: “Urlano con tutta la forza che hanno in corpo, i compagni si tengono stretti da dietro per bloccare il diaframma, sennò a voce libera, gli schizzerebbero gli occhi fuori dalle orbite”, dice il principe Moncada riferendosi ai devoti, mentre prende la brocca di cristallo appoggiata sul banchetto preparato per i suoi ospiti e si versa del latte di mandorla, poi il suo sguardo torna fisso su Agata.

  

Il cinque è il giorno della festa liturgica della patrona. Nel pomeriggio Catania sarà coperta da un velo mistico, farà da scenografia per la processione di Sant’Agata verso l'Etna, sarà solenne, sarà da piangere. Via Etnea si infuoca con le offerte votive della cera, divenendo scenario di sforzi fisici disumani che rappresentano le speranze di una città dove chi porta il cero affida tutto alla Santa. Questo succede sotto l’occhio mitologico dell’Etna, della “Montagna” innevata. Per i catanesi il vulcano è femmina e le divinità, anche pagane, esistono e resistono.

 

Il sei mattina presto, la Santa passerà anche per via di Sangiuliano, il tratto più pericoloso perché in grande pendenza, ma grande prova di coraggio per i devoti, qualcuno nel tirare il fercolo si è anche rotto l’osso del collo.

 

È tutto finito, la cera colata è diventata l’asfalto della città, la Santa è tornata in chiesa ma rimangono e fioriscono tradizioni dolcissime per tutto l’anno come le "minnuzze" di Sant’Agata, tettine di glassa bianca con il capezzolo di ciliegia candita che ricordano il martirio, quando Quinzano le fece strappare il seno. Dolci sapori di peccato, senza peccato.

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