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Il bi e il ba

I partigiani della pace e la bufala del bellicismo capitalista

Guido Vitiello

La storia delle mentalità ha tempi infinitamente più lenti della cronaca e anche più lunghi del decorso delle ideologie: già nel 1951 Enzo Enriques Agnoletti individuava il pericolo che si nasconde in un certo tipo di retorica pacifista

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Il ritratto più conciso e impietoso di un anno di miserie del pacifismo filorusso lo dobbiamo a Enzo Enriques Agnoletti: “Lo scopo di questa falsa offensiva di pace non è solamente quello di preparare una non-resistenza all’aggressione in quei paesi nei quali esistono le libertà individuali e collettive, e dunque di rendere possibile la guerra; essa tende anche a corrompere una delle più antiche e solide tradizioni del pensiero democratico. Essa mira infatti a distruggere la nostra convinzione che il pericolo di guerra provenga da quei governi i quali esercitano un potere assoluto e si sottraggono al controllo e alla vigilanza dell’opinione pubblica”. Proprio così: la colomba della pace porta nel becco un invito neppure tanto mascherato alla resa ucraina, accompagnato dalla premessa menzognera – a volte esplicitata, altre volte taciuta – secondo cui il bellicismo è una tara delle democrazie occidentali, dell’imperialismo americano e, gratta gratta, del capitalismo. 

 

Vi starete chiedendo dov’è che scrive questo commentatore così illuminato. Fareste meglio a chiedervi dove scriveva. Enriques Agnoletti – partigiano azionista, allievo di Calamandrei (ne ereditò la direzione del Ponte), liberalsocialista, federalista europeo – è morto da quasi quarant’anni, e il passo che ho citato proviene dal suo breve testo di presentazione non firmato a un opuscolo del Comitato italiano per la libertà della cultura, “Chi sono i partigiani della pace”, che risale addirittura al 1951.

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Quel libriccino dalla copertina gialla (venduto al prezzo di sessanta lire: ma a me il cimelio è costato un po’ di più) si proponeva di “studiare e smascherare una delle maggiori mistificazioni della nostra epoca”, dimostrando – cosa allora non evidente a tutti – che i partigiani della pace facevano capo a Mosca, e che il loro movimento era una filiale del Cremlino buona per reclutare utili idioti e persone dabbene in occidente (l’autore ricordava con rincrescimento che nell’inganno era caduto per un certo periodo perfino Thomas Mann). È storia nota, ormai. Victor Zaslavsky scrisse nel 2004 che il movimento dei partigiani della pace era stato il capolavoro politico e diplomatico dello stalinismo, uno strumento di esportazione ideologica incaricato di associare stabilmente nelle coscienze occidentali il pacifismo all’antiamericanismo; così efficace da non aver cessato, molti decenni dopo, di dispiegare i suoi effetti. La storia delle mentalità, del resto, ha tempi infinitamente più lenti della cronaca e anche più lunghi del decorso delle ideologie, diciamo pure che ha tempi astronomici; e la luce della Gigante rossa continua a propagarsi anche esaurita la sua forza propulsiva. Non serve un Cominform per arruolare quelli che Enzo Reale, conoscitore di cose russe, chiama da un anno, quotidianamente, useless idiots o inutili idioti. 

 

Si sa che i comunisti tentarono di appropriarsi del simbolo universale della colomba, e che commissionarono a Picasso quello che sarebbe diventato l’emblema dei partigiani della pace. Gli anticomunisti risposero, in quegli stessi anni, con una serrata “guerriglia iconografica” in cui la colomba diventava un uccello da preda, un avvoltoio, una bestia grondante sangue o carica di missili, un anfibio metà volatile e metà cingolato. Io propongo però di resuscitare un altro simbolo, o meglio di ripescarlo dal mazzo di carte che Jacovitti disegnò per conto del Comitato civico in vista delle elezioni amministrative del 1951, e che sono per buona parte dedicate a smascherare il falso pacifismo filosovietico (anche su quest’altro cimelio si sono avventate le mie mani bucate, mannaggia a eBay). Molte carte, va da sé, sono invecchiate male, e a riproporle passeremmo per anticomunisti trinariciuti fuori tempo massimo. Ce n’è una, però, che sembra proprio disegnata ieri; e non come parodia di Picasso, ma come risposta alle orribili – o ignobili, fate voi – vignette di Vauro. È l’asso di bastoni. Un partigiano della pace che brandisce una minacciosa clava in cima alla quale, come su un pennone, sventola la bandiera arcobaleno.

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