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Come leggere il 2022. I libri dell’anno secondo il Foglio

Saggi, fiction, romanzi,  tomi pesanti, audiolibri, volumi imperdibili, idee pazze e qualche utile stroncatura (con alcune incursioni a sorpresa). Selezione di letture foglianti da consigliare e anche da sconsigliare

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Redattori, collaboratori e amici del Foglio hanno selezionato uno o più titoli per una ideale lista di libri dell’anno. Buona lettura.

 

ROMANZI

Paolo Giordano - Tasmania (Einaudi)

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Il romanzo italiano dell’anno non è un romanzo, non è un saggio, non è un’autobiografia o un reportage, è qualcosa di diverso, di nuovo, contemporaneo e soprattutto bello da leggere. Il piacere di girare pagina, di ritrovarsi, voler capire che succederà a quest’uomo, questo scienziato, questo scrittore che ha quarant’anni e vive proprio adesso, qui vicino a noi, attraversa il Covid, Roma, Parigi, gli attentati terroristici, la paternità, il Capodanno. Paolo Giordano prende per mano il lettore con leggerezza e lo porta nelle profondità del presente: nelle crisi private, interiori, segrete, e contemporaneamente in quelle collettive, immense. Si ride, ci si immedesima, si piange. Viene voglia, leggendo, di parlare di più con i nostri amici, di fare domande e di perdonarli meglio, perdonarli sempre. Viene voglia di tornare nel mondo, nel casino che c’è. E poi negli ultimi giorni dell’anno fare come il protagonista di Tasmania: scorrere tutte le foto del cellulare, compresi gli screnshot, per capire che vita abbiamo vissuto, e con chi.

Annalena Benini

 

Lydia Davis - Osservazione sulle faccende domestiche (Mondadori)
 
A Natale l’osservazione sulle faccende domestiche è infernale, per questo serve una grande scrittrice da leggere qua e là, in cucina e in ascensore, a letto e in treno, nel bagno di un autogrill mentre si sta meditando di scappare. Lydia Davis scrive cose brevi, flash fiction le hanno definite, e questa flash fiction contiene la realtà della vita quotidiana ma anche l’irrealtà dei sogni a occhi aperti: tutto molto tangibile, ironico, inquietante, comico, angoscioso e vivo. Non smetterei mai di leggere i suoi ricordi dolorosi e le sue lettere di protesta. Ma anche le storie dei piselli surgelati e la definizione straziante di invecchiamento: tutto in Lydia Davis è come la miniatura, la sintesi di un romanzo, e i dettagli taciuti non sono mai davvero taciuti. In lei ci sono Ennio Flaiano, Proust e Shirley Jackson. Da regalare soprattutto alle donne, con un biglietto: non sei pazza, leggi qui.

Annalena Benini

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R. C. Sherriff – Due settimane in settembre (Fazi)   

Capita – sempre più raramente, volendo essere sinceri – di imbattersi in romanzi di cui non conoscevamo il titolo né il nome dello scrittore. Questo si chiama R. C. Sherriff, le iniziali stanno per Robert Cedric: quasi più difficile da ricordare del nome di John Williams autore di Stoner. La gara tra i nomi che spariscono dalla memoria è appena appena corretta dal fatto che il romanzo di Sherriff si intitola Due settimane in settembre. Corrisponde perfettamente a quel che un lettore affezionato ammirava dei romanzi di Trollope: una fetta di mondo ritagliata e messa sotto vetro. Da godere ascoltando i pettegolezzi, che poi condurranno agli intrighi e a qualche matrimonio.

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Mariarosa Mancuso

 

Alan Bennett – Nudi e crudi (Adelphi)

Non è mai troppa tardi per scoprire Alan Bennett. Lasciando perdere La sovrana lettrice, apologo brillante della regina Elisabetta (buonanima, o come dicono a Londra) ma molto inferiore per brillantezza e divertimento a Nudi e crudi. Una coppia borghese torna dal concerto e si trova la casa completamente svaligiata. Letti, mobili, armadi, tv, cucina, accendigas, completamente vuol dire “anche lo scopino del cesso” (allo scopo, verrà utile il programma del concerto). Lui tiene in casa volumi come “Illecito in materia di sicurezza” e  rimane sconvolto. Lei comincia  a frequentare il negozietto sotto casa.

Mariarosa Mancuso

 

Sam Kean – La brigata dei bastardi (Adelphi)

La brigata dei bastardi di Sam Kean è un libro a metà tra il saggio storico-scientifico e il romanzo; è il racconto dell’operazione Alsos, l’eroico tentativo di un gruppo eterogeneo di persone di impedire ai nazisti di arrivare per primi alla bomba atomica. L’aspetto scientifico è accurato, Sam Kean è pur sempre un fisico che si è deciso, finalmente, a parlare anche di fisica (“la più romantica delle scienze”) e l’aspetto storico fa riflettere – l’abbiamo scampata bella. Ma La brigata dei bastardi è soprattutto un bellissimo romanzo, gli ingredienti sono quelli di una spy story da manuale: ci sono gli scienziati da Nobel, ma anche le attrici di Hollywood, i militari, le immancabili spie. I personaggi e l’azione sono quelli di un film catastrofico, uno di quelli da cui non ci si riesce proprio a staccare. Avvince e, incredibilmente, diverte: si ride di gusto, a tratti, e capita di dimenticarsi che quel che si legge è tutto vero e che sì, davvero l’abbiamo scampata bella. Kean riesce egregiamente nel proposito, espresso nella sua nota introduttiva, di restare fedele alla letteratura, di non lasciare che la scienza e la storia prendano il sopravvento sul racconto. Giuseppe De Filippi

  

PERSONAGGI

Gemma Calabresi Milite – La crepa e la luce (Mondadori)

Di ciò che era stato prima, del “fatto” di allora, e del segno indelebile che aveva lasciato su tutto il “dopo”, sulla sua e sulle vite degli altri, indirizzandole in modo imperscrutabile e a un tempo chiaro, anzi sempre più limpido, aveva già raccontato molte volte. In scritti, interviste, conversazioni. Da sola o con il filtro-specchio di suo figlio Mario. In un altro libro, per parlare – per rendere giustizia – a “Mio marito” aveva usato il cognome da nubile, Gemma Capra. Per questo ha scelto i cognomi di entrambi gli uomini della sua vita, Gemma Calabresi Milite. E siccome non crediamo alle civetterie né alle sviste dell’editing, il significato può essere solo quello di un percorso, “di anni, o chilometri” che sono una vita intera, il suo senso cercato e alla fine trovato. Forse anche donato. La crepa e la luce è qualcosa di più di un racconto autobiografico; è una testimonianza intessuta di amore – un amore che ha avuto la grazia di rimanere ricordo vivo, non “cenere da adorare” come direbbe Mahler, e dunque di rinnovarsi e poter crescere. Fino a essere una strada di perdono. Il perdono reso possibile dalla fede cristiana di questa straordinaria donna: anche questo una strada, non certo un colpo di fulmine o un sentimento del tempo. Le hanno chiesto per decenni se potesse perdonare, lei rispondeva: “Sono in cammino, la strada è lunga e difficile, vedremo”. Ora che tutto è finalmente trasformato in questa nuova “luce”, Gemma Calabresi Milite ne offre una testimonianza trasparente, straordinaria. Come raramente può capitare di leggere. E persino di intuire nel profondo, che è tutto vero.

Maurizio Crippa

 

Gustavo Corni – Guglielmo II (Salerno)

Per sapere come nasce un regime c’è solo l’imbarazzo della scelta: basta entrare in una libreria e scorrere con gli occhi il profluvio di pubblicazioni che raccontano, indagano e ci fanno sapere origine e morte del fascismo. Per sapere invece come scoppia una guerra nel cuore d’Europa c’è Guglielmo II, la biografia “tra autocrazia, guerra ed esilio” dell’ultimo Kaiser di Germania curata da Gustavo Corni (Salerno, 336 pp., 24 euro). Si dirà: che cosa può dire un libro del genere a noi, immersi da mesi nel racconto del conflitto fra russi e ucraini? Risposta: tanto. Perché il lavoro di Corni descrive come un impero militarista riuscì ad archiviare la prudente politica bismarckiana e a sconvolgere l’Europa in pochi anni. La politica guglielmina destabilizzò il continente, fece guerra all’Inghilterra dei suoi parenti (sua madre era la primogenita della regina Vittoria), lanciò l’assalto alla Francia, fece transitare per anni truppe da ovest a est, dal Reno ai confini con la Russia. Ma la parte forse più interessante (e meno conosciuta) è la prima, quando si spiega come si è arrivati alla guerra, indagando la quotidianità di Guglielmo (e i suoi problemi, probabilmente anche di natura mentale) e i suoi cambiamenti d’umore. Una biografia storica che parla al nostro presente.

Matteo Matzuzzi

 

Bruce Caldwell e Hansjoerg Klausinger – Hayek. A Life: 1899-1950 (University of Chicago Press)

Per chi s’interessa alla storia del pensiero economico, il libro dell’anno non può che essere Hayek. A Life: 1899-1950 di Bruce Caldwell e Hansjoerg Klausinger, primo mattone di due. Dovrebbe essere la biografia “definitiva” di Friedrich A. von Hayek. Gli autori hanno potuto attingere a fonti finora sconosciute: corrispondenze, diari, vecchie agende. Questo scavo certosino restituisce un Hayek timido, a suo agio in compagnia ma sostanzialmente un solitario, refrattario agli scontri diretti specie del genere smargiasso con cui gli intellettuali amano esagerare i dissidi teorici. Gli autori ne raccontano la vicenda familiare, l’amore per la montagna, l’imbarazzo e la cautela nel guadagnarsi da vivere facendo previsioni, l’apprendistato accademico, la lucidità con cui seppe intuire l’inevitabile torsione liberticida dei collettivismi, rosso e bruno. Ma anche la diffidenza per la società dei consumi americana e l’idealizzazione, in parte consapevole, di un’Inghilterra liberale che non esisteva già più quando arrivò a Londra, nel 1930. L’eredità più importante di Hayek è una lezione di prudenza e scetticismo. Le scienze sociali, come la politica, sono piene di prestigiatori. Beato il paese che non ha bisogno di credere nella magia.

Alberto Mingardi

  

Paola Giovetti – Gustavo Adolfo Rol. L’uomo oltre l’uomo (Edizioni Mediterranee)

“Un rebus, avvolto in un mistero, dentro un enigma.” La celebre definizione di Churchill dell’Unione sovietica calza perfettamente pure a Gustavo Rol, gran signore torinese che per cinquant’anni ha incantato e spaventato, tra molti altri, Mussolini, de Gaulle, Vittorio Valletta, Achille Dogliotti, Cesare Romiti, gli Agnelli, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Maria José di Savoia e legioni di sconosciuti che lo cercavano per risolvere i loro problemi: il suo numero era sull’elenco. Non prendeva soldi ma ha comunque indispettito e non poco una schiera meno folta ma assai accanita di scettici. Ogni anno escono nuovi libri da aggiungere alla trentina già pubblicati sul discusso taumaturgo; ma solo Gustavo Adolfo Rol: l’uomo oltre l’uomo (Edizioni Mediterranee 2022) di Paola Giovetti si è assunto il compito di indagare l’uomo e i risvolti per nulla scontati del carattere di questo signore dell’alta borghesia torinese, e non solo i suoi “esperimenti” assai stravaganti. Per la prima volta un autore, nel caso una specialista in materia, ha potuto consultare il lascito Rol, lettere, taccuini, potenti scritti inediti, appena schedati dall’archivio comunale di Torino. Se si vuole saperne di più sul controverso gentiluomo, è bene iniziare da questa ben documentata, concreta biografia sull’interiorità dell’uomo che non smette di provocare e incuriosire a quasi trent’anni dalla morte.

Anselma Dell’Olio

 

Paolo Bricco – Adriano Olivetti, un uomo del Novecento (Rizzoli)
Adriano Olivetti chi era costui? Sembra un paradosso, perché di lui si continua a parlare quasi quanto di Enrico Mattei o Gianni Agnelli, eppure ci è voluto un lavoro di anni per far cadere i veli depositati su un personaggio che ha segnato per molti versi l’industria e la cultura, a un tempo protagonista del miracolo economico e vittima del modello italiano: il protezionismo, il provincialismo, la dipendenza dallo stato, dai governi e dalle banche, il familismo (la Olivetti era nelle mani di un patto di famiglia), la scarsità di capitali fino alla velleitaria proposta di passare la proprietà a una fondazione che acuirà i già aspri contrasti interni. Nel suo libro Adriano Olivetti, un italiano del Novecento, Paolo Bricco ci racconta un borghese intellettuale che si è perduto nell’industria, le sue molteplici contraddizioni private e pubbliche (il rapporto con l’ebraismo, l’adesione al fascismo, l’utopia comunitaria, il mito americano), i successi (come la lettera 22) e la maggiore sconfitta: non aver saputo cogliere la rivoluzione elettronica. Il suo fallimento ha influito in modo determinante sul ritardo tecnologico italiano. Anche per questo, oltre alla serietà della ricerca e alla qualità della scrittura, è un volume che andrebbe letto e discusso oggi più che mai.

Stefano Cingolani

 

Emil Cioran – Tara Mea/Mon Pays (Humanitas)

Stando ai tanti mesi del 2022 trascorsi a studiare le inaudite vicende della Romania novecentesca, inevitabile che il libro che mi ha segnato di più fosse di un rumeno che quei deliri li aveva attraversati per poi uscirne, andare a vivere a Parigi e diventare uno dei maggiori scrittori in lingua francese del Novecento. Nato in Romania nel 1911, dal 1941 Emil Cioran visse stabilmente a Parigi dov’è morto nel 1995. A metà dei Trenta era stato un adepto della Guardia di Ferro, il movimento antisemita nato nel 1927. Nella Parigi in cui andrà a vivere, Cioran matura il distacco da quei suoi impazzimenti giovanili. Tara Mea/Mon Pays, undici pagine scritte con la penna stilografica, esce postumo in un’edizione a metà francese/metà rumena. Cioran l’aveva scritto nei primissimi anni del Dopoguerra. L’aderire a idee folli, dice, è un marchio inevitabile della giovinezza: “Impossibile per uno che abbia vent’anni non bagnarsi nelle acque del fanatismo ideologico”. Quanti di noi non potrebbero scrivere altrettanto della propria giovinezza?

Giampiero Mughini

 

Daniel Gross – A Banker’s Journey: How Edmond J. Safra Built a Global Financial Empire

Questo bel saggio narra la carriera straordinaria e l’altrettanto interessante parabola umana di Edmond J. Safra, uno dei più grandi banchieri del ’900, ancorché relativamente poco conosciuto. Safra fondò tre grandi banche, il banco Safra in Brasile, l’unico che fa ancora capo a un ramo della famiglia, la Trade Development Bank in Svizzera, poi venduta ad American Express, cessione cui ebbe seguito un aspro contenzioso legale, e la Republic National Bank negli Stati Uniti, successivamente assorbita da Hsbc. Si trattò pertanto, e ciò fa comprendere ancor meglio il talento imprenditoriale dell’uomo, di un successo in tre continenti diversi in un business in cui i decenni successivi, almeno per quanto riguarda la banca commerciale tradizionale, vedranno la prevalenza di attori locali. E’ un risultato comparabile a quello di una grande dinastia come i Rothschild. In effetti, le due storie hanno anche altri punti di contatto, come quelli di originare da una diaspora e di avere trovato, almeno all’inizio dell’attività, un solido appoggio nei correligionari. Infatti, ogni volta che fondava una banca, Safra si rivolgeva in primo luogo alla comunità locale di ebrei sefarditi, sempre pronti ad appoggiarlo. L’altra faccia della medaglia di quel successo fu che si basava su una gestione fortemente accentrata, non in grado di sopravvivere al fondatore. Ragion per cui, quando la salute cominciò a declinare, Safra vendette, anche se con enorme sofferenza, tanto che a chi si congratulava per l’ottimo prezzo ottenuto, rispondeva di vergognarsi perché aveva venduto un figlio. Anche la sua vita privata fu fuori dal comune. Non ebbe figli, ma sposò una ricca vedova brasiliana, Lili Monteverde, destinata a diventare una delle più celebri socialite europee. Sposata già tre volte, era circondata da una sinistra fama di vedova nera, poiché sulle circostanze della morte per suicidio del più agiato dei precedenti mariti aleggiarono per anni sospetti e maldicenze. Safra, che pure era superstizioso, non si diede pensiero della lugubre nomea della moglie. Non gli andò, bene perché anche lui morì in circostanze bizzarre, e alcuni sostengono mai del tutto chiarite, in un incendio che avvampò la splendida mansion che abitava sopra il porto di Montecarlo, dove in vecchiaia si era trasferito.

Luca Garavoglia, presidente del gruppo Campari

 

IL MONDO E LA GUERRA

Timothy Snyder – On Tyranny and On Ukraine: Lessons from Russia’s War on Ukraine (Penguin, audiolibro)

Se davvero la storia si ripetesse sempre uguale, allora la volontà umana non conterebbe nulla, non sarebbe rilevante né determinante. Invece la volontà è tutto, dice Timothy Snyder, la storia non si ripete ma evolve: “Potremmo essere tentati dall’idea che la nostra eredità democratica ci protegga dalle minacce” illiberali, e sbaglieremmo, la protezione si costruisce giorno per giorno, avendo cura giorno per giorno di quel che la libertà ci offre. Snyder è un professore di Storia a Yale che ha scritto saggi importanti sull’Europa dell’est e in particolare sull’Ucraina – The Road to Unfreedom e Bloodlands sono due testi imprescindibili per comprendere i rapporti tra l’occidente e il mondo sovietico e post sovietico, e quindi per decifrare anche la guerra in corso. Nel 2017, Snyder pubblicò On Tyranny, un libriccino in formato da tasca (sembra la Costituzione americana, hanno detto alcuni per sottolinearne la forma e la sostanza) che è diventato un bestseller negli anni in cui l’America conosceva l’eversione di Donald Trump e iniziava a temere che la democrazia non fosse un bene da dare per scontato. Con l’invasione russa in Ucraina, Snyder ha allargato On Tyranny e alle venti lezioni della prima edizione ne ha aggiunte altre venti sulla guerra e sull’Ucraina: è in formato audio. Snyder si ascolta, si ascolta e si guarda: mette su YouTube ogni settimana le lezioni che sta tenendo durante questo semestre ai suoi studenti, tutte sull’Ucraina, “il paese che meglio esemplifica le tendenze più importanti nella storia dell’Europa”. Non dice quasi mai in modo esplicito perché la difesa dell’Ucraina è la difesa di un’idea di mondo liberale e democratico: lo spiega, lo racconta, lo mostra con quella sua voce chiara e sicura che è la mano salda che mi accompagna da mesi, e mi rassicura.

Paola Peduzzi

 

Czeslaw Milosz – La mia Europa (Adelphi)

Non serve un libro scritto quest’anno per capire la guerra di Putin, meglio andare indietro, scartabellare, neppure troppo, tra i titoli di un premio Nobel per farsi raccontare cosa vuol dire nascere lungo quel confine orientale dove oggi si sente più forte la guerra scatenata da Vladimir Putin. Czeslaw Milosz, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1980, ci ha lasciato un canto di quel mondo per anni modellato dalle relazioni con Mosca e con Berlino, distrutto, ricostruito, frammentato, ricomposto, pacificato. Il libro era uscito in Polonia con il titolo Europa familiare e comparve nella traduzione francese come Une autre Europe, un’altra Europa. Quasi a dire che ci fosse l’Europa vera, quella centrale, e poi l’altra. Nulla di più sbagliato e meno europeista. Milosz scrive di essere nato in un paese “situato fuori dalle carte geografiche” che “apparteneva al fiabesco”, e raccontava cosa volesse dire crescere in quella parte di mondo a cui era toccato in sorte di scendere nel cuore di tenebra del XX secolo. La mia Europa serve ad affacciarsi sul quel cuore di tenebra, sentirne il battito, guardarci dentro e ritrovarsi lungo il confine di un nuovo mondo, familiare e alieno al tempo stesso. Nel libro, uscito nel 1985, si ritrovano le guerre, le paure, le liberazioni, il senso di un’Europa che, prima ancora del 24 febbraio, sembrava sapere già tutto.

Micol Flammini

 

Katie Stallard – Dancing on Bones: History and Power in China, Russia and North Korea (Oxford University Press) 

L’ordine del mondo come lo abbiamo sempre conosciuto è sotto attacco. E sono soprattutto tre leader che vogliono cambiarlo, a capo di altrettanti regimi autoritari che hanno molte cose in comune. Ex corrispondente di Sky News da Mosca e da Pechino, l’autrice di questo libro, Katie Stallard, ha viaggiato diverse volte in Corea del nord e in Dancing on bones fa un racconto dettagliato, sul campo, ma anche una ricostruzione storica fatta di voci e testimonianze, sulle connessioni che dobbiamo conoscere (e riconoscere) tra Vladimir Putin, Xi Jinping e Kim Jong Un. In tutti e tre i casi, la storia è al servizio del potere, sempre più accentrato su un’unica persona. La storia è uno strumento per costruire il nazionalismo, e per questo va adattata, modificata, fino a diventare una completa menzogna, come nel caso nordcoreano. Tutto nasce da una convergenza di interessi tra Stalin, Mao e Kim Il Sung, uniti dall’opposizione all’occidente post Seconda guerra mondiale. La nuova generazione di leader vive come una parentesi la pax economica post-Guerra fredda, ed è tornata più aggressiva che mai.

Giulia Pompili

 

David Kilcullen e Greg Mills – The Ledger: Accounting for Failure in Afghanistan (Hurst)

In pochi mesi dal giorno in cui a Kabul sono tornati i talebani, il 15 agosto del 2021, David Kilcullen e Greg Mills hanno unito dettagli, ricordi, pagine dei diari e racconti degli ufficiali della coalizione internazionale e degli ufficiali afghani: ne è venuto fuori un libro che si chiama The Ledger: Accounting for Failure in Afghanistan, che ha pubblicato Hurst. E’ un’analisi spietata di tutto quello che è andato storto e che si poteva evitare, un manuale da citare per sgretolare la retorica pigra che vorrebbe gli afghani inevitabilmente destinati a vivere sotto un regime e i talebani come il più naturale tra i possibili governi del paese. La missione non è stata un errore, ma durante la missione sono stati commessi un’infinità di errori che – messi in sequenza – spiegano con rigore logico i rapporti causa-effetto tra gli eventi che hanno portato all’implosione del sistema e alle evacuazioni tragiche. Fino al ritorno delle esecuzioni negli stadi e alle frustate per le donne che scappano dai mariti violenti. E’ un raccolta precisa di cosa evitare, perché in Afghanistan l’occidente non ha perso solo una guerra ma – per un momento – la credibilità e la proiezione della sua forza agli occhi di Xi Jinping e soprattutto di Vladimir Putin.

Cecilia Sala

 

Egidio Ivetic – Il grande racconto del Mediterraneo (Il Mulino)

Il Papa da anni dice che è in corso la Terza guerra mondiale “a pezzi”, combattuta un po’ qua e un po’ là, nei diversi continenti e a intensità difforme. Però tutto si tiene, in fin dei conti: è il risultato della globalizzazione, ogni cosa è legata all’altra e sbrogliare la matassa diventa un’impresa ardua. Se c’è un punto d’unione, un contesto geografico che racchiude meglio d’ogni altro le contraddizioni del mondo, questo è il Mediterraneo. Egidio Ivetic lo definisce “il cuore incandescente di un unico vitale continente afro-euro-asiatico, l’epicentro della grande storia che qui transita e da qui scaturisce, il luogo in cui si è concentrato per alcuni millenni il mondo immaginabile”. Travolti da passioni e pulsioni terzomondiste o più banalmente “americane”, ci dimentichiamo che qui si sono giocate per lungo tempo le sorti del pianeta. Proprio qui, in questa “pianura fluida” che ha dato i natali a tante civiltà. Ma non di sola storia si tratta: con i fenomeni migratori degli ultimi anni, il Mediterraneo è tornato centrale nelle politiche occidentali e ancor di più dell’Europa. Questo volume, impreziosito da magnifiche illustrazioni, ci ricorda che il mare di Ulisse non è centrale solo nell’Odissea. Lo è anche per il nostro destino.

Matteo Matzuzzi

 

Tom Holland – Dominion (Little, Brown Book Group)  

“Il mondo moderno è pieno di antiche virtù cristiane impazzite”, scrisse G. K. Chesterton. E un rinomato storico inglese, Tom Holland, l’autore di Fuoco persiano (Il Saggiatore), non potrebbe essere più d’accordo. Così in Dominion racconta il “trionfo del cristianesimo” (sottotitolo The Making of the Western Mind). Il libro che manca nella saggistica italiana popolata di relativismi vari (qualcosa di simile, ma meno per il pubblico generale, lo ha fatto il compianto Rodney Stark). “L’impatto del cristianesimo sullo sviluppo della civiltà occidentale è stato così profondo”, scrive Holland, “che ha finito per essere nascosto alla vista”. Dominion ripercorre questa storia nascosta. “Non devi credere che un uomo sia risorto dai morti per essere stupito dalla formidabile influenza del cristianesimo”, scrive ancora. “Le sue vestigia si possono trovare nei pregiudizi della società occidentale”. Un esempio è l’uguaglianza. “Che ogni essere umano possieda uguale dignità non era una verità nemmeno lontanamente scontata. Un romano ne avrebbe riso. A ogni modo, per condurre campagne contro la discriminazione basata sul genere o la sessualità occorre contare su un gran numero di persone che condividono un presupposto comune: che ogni persona possieda un valore intrinseco. Le origini di questo principio non risiedono nella Rivoluzione francese, né nella dichiarazione d’indipendenza, né nell’illuminismo, ma nella Bibbia”. Scrive allora Holland che l’idea stessa di umanesimo liberale “è una nota a piè di pagina del cristianesimo”. Si abbandoni dunque il relativismo imperante nelle scienze sociali. Il successo dell’occidente si deve interamente alle sue fondamenta cristiane, che ci piaccia o no, che lo riconosciamo o meno.

Giulio Meotti

  

SPETTACOLI


Jeanine Basinger e Sam Wasson – Hollywood: The Oral History (Harper)

La storia orale non riguarda vaghe e frammentarie memorie della Resistenza. Né l’impresa di Joe Gould che al Greenwich Village degli anni 40 viveva di espedienti – un tazza di acqua calda e una bustina di ketchup per la zuppa. Di ottima famiglia, passava la giornata a riempire quaderni su quaderni. Joseph Mitchell gli forgiò un ritratto sul New Yorker, ma dopo la morte di Gould la sua “storia orale” non si trovò mai. Esiste nuova nuova in libreria (in attesa di traduzione, ci sarà pure ancora qualcuno innamorato del cinema) questa storia orale di Hollywood. Una girandola di pettegolezzi e curiosità d’autore. Tutta gente che conosce la perfidia e l’arte del racconto.

Mariarosa Mancuso

 

Jon Savage – Il sogno inglese. I Sex Pistols e il punk-rock (Shake)

Jon Savage è stata una delle penne davvero appuntite della cultura pop britannica di fine XX secolo. Dove ha dato il suo meglio è in questo volume vecchio di trent’anni, ma appena ripubblicato in Italia con la competente traduzione italiana del critico Alberto Campo. E’ la fulminea, urgente storia del punk inglese, detonata nel vortice di negatività del thatcherismo e capace di archiviare il rock come formato estetico, sovvertendo la regola musicale: non importa saper cantare o suonare, l’importante è rappresentare. Teleguidati dal pigmalione Malcolm McLaren, i Pistols – di recente mestamente rievocati dalla brutta serie tv di Danny Boyle – furono il capolavoro del movimento, il progetto intriso di implicazioni culturali e provocazioni trasgressive. Ma il punk era soprattutto un fenomeno di base, sospinto dalla facilità di accesso, dall’impeto della riconoscibilità e dal suo feroce romanticismo. Il libro di Savage descrive tutto ciò riuscendo in modo, al tempo stesso, febbrile e flemmatico, rispettando il mito ma restituendo l’aria dei tempi. Immergersi in quel delirio quasi mezzo secolo più tardi è ancora emozionante e porta con sé domande a cui è imbarazzante rispondere – in particolare quelle sulla libertà d’espressione, nelle diverse interpretazioni che si possono dare a questa definizione.

Stefano Pistolini


Hanif Abdurraqib – Piccolo Diavolo in America. Un omaggio alla performance afroamericana (Black Coffee)

Una riflessione prodigiosa su quale sia la funzione sociale, e poi politica, psicologica, prim’ancora che estetica e artistica, della black music per gli stessi afroamericani, è contenuta in questo luminoso saggio, in cui Hanif Abdurraqib si preoccupa di andare ben oltre le apparenze, o se volete oltre il fattore emotivo che lega musicisti e pubblico quando si diffonde questo suono. In sostanza la musica nera non può mai essere solo questo, perché contiene perenni allusioni, costanti presenze delle implicazioni che hanno contribuito a generarla, a cominciare dalla sofferenza provocata dalle cronache dell’oppressione, dal senso di ingiustizia, dalla percezione del perenne pericolo. Abdurraqib descrive il tutto in modo magistrale, affrontando le infinite connessioni tra il vissuto dell’America nera e la musica che ha prodotto, dalle maratone di ballo della Grande depressione al ruolo particolare ricoperto dal femminile nella diffusione e nel successo di questo suono – Aretha, Whitney, Beyoncé – fino alla messinscena dei funerali neri, dove la musica diventa riscatto, espiazione, redenzione.

Stefano Pistolini


Bob Dylan – Filosofia della canzone moderna (Feltrinelli)

Il supremo e sublime ingannatore della canzone americana torna a occuparsi di libri non per dare seguito alla sua autobiografia, ma per guidarci nel viaggio preferito, quello che s’inoltra nella selva oscura della musica popolare del paese, con l’intenzione di coglierne l’essenza primaria, il fattore primigenio e misterioso che l’ha resa indispensabile e organica ai suoi connazionali, fino alla prodigiosa sovrapposizione tra un popolo e la sua colonna sonora, in un percorso di sdoppiamenti, slittamenti, illusioni. Per darci materia di riflessione, Dylan utilizza le monadi: 66 canzoni a propria insindacabile scelta, quelle perfette per il proposito di costruire e smantellare un mondo in tre effimeri minuti, come in un teatro istantaneo delle passioni.  La sua filosofia prende in considerazione molti brani country, diversi evergreen, qualche modernariato targato Clash o Elvis Costello (brit – ma che importa, lo strumento è il linguaggio) sebbene si trovi più a suo agio discettando di Bobby Darin, Johnnie Ray e naturalmente di Elvis. Va seguito come un sapiente promulgatore e corredato di umili ascolti – del resto questo progetto è figlio della formidabile trasmissione radio che Bob curò anni fa, dal titolo volutamente passatista di “Theme Time Radio Hour”. Fatevi stuzzicare la fantasia.

Stefano Pistolini


DENTRO E FUORI IL PALAZZO

Filippo Ceccarelli – Lì dentro. Gli italiani nei social (Feltrinelli)

Passare tre ore e mezza al giorno sui social. Scoprire, con vago tremore, di avere superato per la prima volta nella propria vita, una vita che ormai ha compiuto i 65 anni, che il tempo consacrato allo scrolling supera quello dedicato allo sfoglio dei giornali. E sopravvivere. E anzi imporsi quell’esercizio di ipermodernità, metà supplizio metà guilty pleasure, per superare il “disagio senile”, insomma “la paura di sentirsi superato”: e quindi farne un libro, di quello straniamento. Ora, una parte del piacere da lettore trentenne sta forse proprio qui: nel provare a capire cosa si prova ad affrontare con attitudine tutta novecentesca questo tempo debosciato che a noi c’è stato dato di vivere come se fosse l’unico tempo possibile. Solo che poi, volendo capire qualcosa in più di lui, di Filippo Ceccarelli, si finisce in verità per comprendere molto su di noi, sciagurati nativi digitali: perché, come in un perverso ribaltamento delle gerarchie anagrafiche, qui gli occhi vergini sono i suoi, gli occhi di un inveterato analogico che osservano per la prima volta quel che noi vediamo abitualmente e dunque ormai senza più guardarlo davvero. E così è nata questa ricerca che è una perlustrazione inesausta di un luogo sconosciuto, per certi versi ostile, ma solo apparentemente altro da se: l’italianità al tempo dei social. Che poi è in fondo l’italianità di sempre, ma che si rivela una clip alla volta, un hashtag dopo l’altro. E nel farlo, però, Ceccarelli resta quel che è: un amante della parola scritta, un narratore del quotidiano, un cacciatore di maschere e tipi umani che non cede mai al moralismo. Così per la politica del Palazzo, così per il marciapiede o il mercato rionale, così per le baruffe tra influencer: e forse proprio nell’attrito tra i suoi strumenti d’indagine apparentemente desueti, dell’èra d’ante-Google, e l’onnivora frivolezza della realtà dei social, sta la bellezza del libro. L’inconscio della collettività scrutato dai finestroni di Instragram: “E’ l’attraversamento dello specchio e al tempo stesso un’attrippata micidiale”.

Valerio Valentini

 

Bancor – Le confidenze di un banchiere (Aragno)

La faccio breve. Al contrario dell’adagio di Vanni Scheiwiller “non l’ho letto e non mi piace”, io replico “l’ho letto e mi piace pure”. Mi è stato chiesto il titolo di un saggio. Facciamo uno e mezzo. Il mezzo, dato che l’ho letto in estate, è Il figlio terrorista di Monica Galfré (Einaudi). Racconta la storia del figlio del ministro Donat-Cattin. La parte intera la uso per Le confidenze di un banchiere di Bancor (Aragno). Non vi dirà niente ma “Bancor” è lo pseudonimo più famoso del giornalismo italiano. Se lo inventò nel 1971 Eugenio Scalfari, da direttore dell’Espresso. Dietro Bancor si celava Guido Carli, allora governatore di Bankitalia. Gli articoli erano a scritti a quattro mani. Carli parlava a voce alta. Scalfari rielaborava a parole sue. Il patto era che Carli leggesse a pubblicazione avvenuta. Il giovedì. Carli sorrideva, Scalfari si divertiva. Divenne una rubrica fissa. Oggi esiste pure un premio. Non lo accetterebbe mai (ma chi può dirlo?) ma la domanda non è questa. E’ questa: ma Mario Draghi quale pseudonimo sceglierebbe?

Carmelo Caruso

 

STRONCATURE


Mimmo Cangiano – Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939 (Nottetempo)

Spirito contro meccanismo, idealismo contro razionalità strumentale, organicità contro atomizzazione, sana comunità contadina contro metropoli industriale corrotta: a queste dicotomie, riassumibili nella dialettica Kultur-Zivilisation, si sono aggrappati tra ’800 e ’900 parecchi intellettuali nemici della modernità, specie in area tedesca, francese e italiana (gli Jünger, i Barrès, i Soffici…). Se ne occupa oggi Mimmo Cangiano in uno studio uscito da Nottetempo, Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939, sottolineando il percorso che spesso, all’altezza della Grande guerra, ha portato alcuni di quegli intellettuali verso posizioni fasciste. Il libro è ricco di informazioni, ma somiglia a una lunga serie di subordinate alle quali manca la frase principale. Infatti Cangiano non spiega perché ogni disagio “antimoderno” che non sbocca nell’ideologia hegelomarxista sarebbe reazionario; né spiega perché, appunto in questa prospettiva, lui consideri vangelo le idee del Lukács maturo, quasi che il comunismo avesse vinto e dimostrato del tutto illusorie le dicotomie di cui sopra. Come reagiremmo a un libro sulla poesia italiana dell’800 che nel 2022, senza motivarla, presupponesse l’inarrivabile grandezza di Carducci? In realtà, a differenza di ciò che crede l’autore, il mito della comunità a misura d’uomo, contrapposta alla società alienante di massa, non ha nutrito solo le destre ma anche il marxismo, in fondo una forma sofisticata di anticapitalismo romantico. Non a caso, nel XXI secolo molti continuano a dirsi comunisti proprio mentre lodano un “piccolo è bello” da no global che Marx avrebbe disprezzato. Ci sono più contraddizioni nella modernità di quelle che può sognare lo schema accademico di Cangiano; e dopo i trent’anni, non accorgersene forse è una colpa.

Matteo Marchesini


Daniel Mendelsohn – Tre anelli (Einaudi)

Tra i cosiddetti lettori forti, quest’anno è stato apprezzato come il non plus ultra della raffinatezza Tre anelli di Daniel Mendelsohn. Gli anelli del titolo alludono alle digressioni narrative, che sembrano allontanare da una trama e invece vi ci riportano. Mentre analizza questa tecnica circolare nella storia letteraria, dall’Odissea alla Recherche, l’autore la mette in pratica, eccitando l’ormai atavico borgesismo dei suddetti lettori. I quali sono poi definitivamente conquistati quando si accorgono che in appena cento pagine si trovano riuniti tutti i topoi del loro cursus studiorum: ebrei e greci, migranti, scontri di civiltà, Olocausto, traumi per interposto antenato, giochi etimologici sul verbo “tradurre”, e la Storia come deposito di rovine. Col tono del conferenziere e del biografo (le tre parti del libro sono dedicate a tre intellettuali in qualche modo esiliati: Auerbach, Fénelon e Sebald), Mendelsohn compendia la cultura occidentale mescolandola con la propria vita. Solo che il panorama storico-estetico fa da alibi al pathos arbitrario con cui evoca le sue esperienze, e viceversa. A Sebald si pensa anche prima d’incontrarne il nome: ma a un Sebald addomesticato dall’editing e dal tono professorale. Mentre finge di negarlo con una prosa levigata e sobria, Mendelsohn punta tutto sulle citazioni suggestive, sul puro aroma dei Grandi Drammi Civili. Si sofferma di continuo sulla strada accidentata attraverso la quale ha individuato l’argomento e la forma del suo volume, eppure si lascia sfuggire l’unico tema davvero interessante: quello delle ragioni per cui un testo del genere viene scritto, ovvero delle ragioni per cui trova un circuito di ricezione già perfettamente predisposto. In breve: perché è la materializzazione sintetica di un gusto che si crede raffinato e invece è filisteo.

Matteo Marchesini


Valerio Magrelli – Exfanzia (Einaudi)

Valerio Magrelli è un poeta che ha avuto una fortuna precoce. Il suo esordio è stato astuto. Non avendo niente da dire, lo ha nascosto offrendo al lettore la recita di una distillata esattezza, che in realtà è l’effetto di un’elusione. Il problema è che a un certo punto non si è nascosto più, e ha provato a esprimere apertamente il suo modo di vedere la vita. Allora è venuto in primo piano il profilo di un borghese piccolo piccolo, rancoroso, sentimentale e stilisticamente kitsch, a cui piace spiegare le barzellette dopo averle raccontate. Le geometrie escheriane, la mistica razionale di questo monsieur Teste disegnato da Folon si sono rivelate delle mezze verità banali in giornalese, accompagnate da un pedante commento di apposizioni e da un utilizzo esornativo di termini tecnici. In questo senso Exfanzia, l’ultima raccolta magrelliana uscita nella bianca Einaudi, raggiunge vertici di rara bruttezza. In un tessuto fitto di rime telefonate – quasi sempre zeppe – ricompaiono il solito soggetto che si morde la coda, il solito procedimento attraverso cui le cose mostrano meccanicamente il loro rovescio, e il solito scambio di parti tra l’incorporeo alfabeto di lettere o byte e le corpose materie del mondo (esempio: al primo piano il poeta taglia versi, mentre nel negozio di sotto il suo macellaio studia la carne). L’autore spera invano che la sua finta sottigliezza o il suo spirito di patata lo assolvano dal cattivo lirismo: non capisce che al contrario lo peggiorano, come quando dopo aver evocato adolescenti dalle “mammelle tese come vele” ne fa “prodigi / di energia eolica”. S’illude che una sgraziata poesia d’amore sia meno sgraziata se si riferisce al “QR code del tuo viso / che mi fa sussultare, ogni mattina”. Magrelli trascrive ideuzze che non esigono affatto la forma di queste poesie, ma sono traducibili senza residui in qualunque altro linguaggio. Traducibili, cioè sostituibili: se avete fatto l’errore di comprare il suo libro, avete buone ragioni per chiedere al libraio di cambiarlo con un altro dello stesso prezzo.

Matteo Marchesini

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