Addio sogni di carta. Il palazzo ex Rizzoli sotto le ruspe “riqualificatrici”
Chissà come la “piattaforma indipendente” Europa Risorse, con 300 milioni di investimento, riuscirà a “integrare” nel progettone “la natura”. I personaggi, le riviste, le feste nei ricordi di chi ci ha lavorato
Lo scalone, hanno salvato lo scalone? Ma lo scalone dov’è? Come, non c’era più da mesi? E perché nessuno lo aveva detto? E la sovrintendenza invece che dice, perché il palazzo pazienza, un dolore infinito ma pazienza, dopotutto era già una favela da anni e ogni volta che c’erano le elezioni il comune provvedeva allo sgombero e chiedeva alla proprietà, Prelios e Rcs, di dare una pulita. Forse era foderato sul serio di amianto come dicevano prima di trasferire tutti, quindici anni fa, in quella struttura senz’anima al numero 8, quel codice a barre di cemento e vetri che non puoi nemmeno pulire e che ora, nonostante l’editore Urbano Cairo vi abbia trasferito la pubblicità e altre divisioni, appare quasi vuoto perché molti periodici Rizzoli sono stati o chiusi o alienati negli anni. Resistono, talvolta benissimo come nel caso dell’Oggi fondativo, Amica, Io Donna, Style, Living, Dove, che ai tempi in cui lo inventò Luca Grandori faceva sognare, e dire che veniva realizzato di fronte al Parco Lambro, una wasteland da dove, disse una volta Paolo Mieli negli anni della direzione editoriale, non possono uscire bei giornali. Ma lo scalone di Piero Portaluppi no, quel capolavoro di ingegneria e leggerezza elegante che sta sui libri di storia dell’architettura non deve essere toccato.
Ecco, per una volta sui social siamo d’accordo, noi che del grandioso palazzo “Rizzoli Editore” di via Rizzoli 2 costruito nel 1957, “il grattacielo sdraiato” come lo definiva il fondatore Angelo per via di quei corridoi lunghi quasi cinquecento metri, i più vasti d’Europa per molti decenni, siamo stati, anzi fummo, passato remoto, i fortunati inquilini di un tempo meraviglioso dell’editoria. Il tempo dell’Europeo, del Mondo, di Amica non più allegato del Corriere della Sera in arrivo dalla via Scarsellini ancora più brutta di quel vialone di periferia ma, per via dei quarti di noblesse, piazzato con il direttore attorno al grande ufficio del secondo piano, l’unico con il bagno en suite, dove Giovanna Mazzetti riceveva Diego Della Valle e Nicola Trussardi con le veneziane abbassate, fumando una sigaretta dietro l’altra attraverso un bocchino da diva del muto. Il tempo della surreale “guerra delle torte” fra Mirella Pallotti di Anna e Carla Sozzani prima direttrice di Elle Italia, perché per il servizio fotografico andavano ordinate a Parigi e fatte arrivare in aereo come passeggeri di prima classe. Il tempo della posta pneumatica che arrivava con un “tump” nelle postazioni lungo i corridoi dopo che il centro documentazione del quinto piano, una genia di archivisti austeri come monaci certosini e snob uguali, ti aveva fatto la grazia di effettuare la ricerca in tua vece, benché restare per ore a scartabellare nelle buste dei ritagli nella luce obliqua che proveniva dalle finestre sotto il tetto fosse una gioia, se si amava il genere.
Il tempo in cui potevi permetterti di far fotografare lo scalone a Robert Polidori e di affidare il racconto dell’estate a Hanif Kureishi perché la Bompiani faceva ancora parte del gruppo ed Elisabetta Sgarbi poteva ritenere interessante darti un’anteprima. Il tempo di Fabione, il gigante buono che portava la posta del secondo piano e spingeva anche te sul carrello se volevi saltarci sopra e ti avrebbe difesa fino alla morte se qualcuno si fosse intrufolato alla sera in quei corridoi mentre finivi di scrivere l’intervista strappata al pomeriggio. Il tempo in cui l’inclusione non era oggetto di dibattito perché era naturale che tutti trovassero un tempo e un luogo per sé, in quel palazzone, fino a quando, una mattina, uno di questi giganti buoni disse a Cesare Romiti, al quale la Rizzoli era stata sostanzialmente data in buonuscita, che doveva aspettare prima di prendere l’ascensore riservato per il primo piano perché c’era già lui col carrello. Il giorno dopo venne affisso un cartello su chi dovesse o non dovesse salirci e allora si capì che lo stile della casa era cambiato. Come mi scrive Enrico Casarini su Messenger, perché ho chiesto a chiunque volesse un ricordo o un aneddoto per l’ala del palazzo che in queste settimane viene sbranato dalle ruspe e sono stata sommersa di scrittura che non basterebbe un libro, “uno dei primi adempimenti quando si entrava a far parte della comunità era ‘il giro’”. Casarini lavorava all’Europeo, ma il “giro” era una cosa che toccava a tutti e che a dirla adesso, anni in cui tutti i giornalisti impaginano quotidiani e riviste praticamente da soli con il malefico programma Xpress, suona apparentabile all’apprendistato di Lucien de Rubempré nelle “Illusioni perdute”, e che in effetti un po’ lo sono. Andava così: “Il responsabile tecnico della testata ti portava a fare un lungo giro di reparto in reparto, dalla tipografia al magazzino con le bobine di carta, dai fattorini ai correttori, dalle officine al (mitico) Centro Documentazione. Eri il ‘nuovo giornalista’, quindi una figura che avrebbe contribuito a dare un futuro anche al loro lavoro, ma ‘loro’ erano un’aristocrazia, a cui dovevi portare rispetto perché portatori di sapienze necessarie al giornale e dunque anche a te”.
La carraia che guardava su via Cazzaniga, ora fulcro di questo progettone di “architettura biofilica”, cioè che ama la natura anche se non si sa bene quale visto che nemmeno al palazzone dell’8 con quel cortile en plongeon, a tuffo, è riuscito di far crescere un giardino e piuttosto che attraversarlo in estate chiedi un appuntamento in centro, era aperta ventiquattr’ore su ventiquattro per consentire il passaggio continuo dei camion. La sera, si andavano a prendere le prime copie delle riviste fragranti di inchiostro e calde come brioche. La stampa a rotocalco sarebbe rimasta lì fino all’inizio del nuovo millennio, e se si tirava tardi con la chiusura del Mondo (un classico del martedì) o, appunto, dell’Europeo, il caffè serale con l’aristocrazia delle mani era un piacere assoluto, come la partita a ping pong al Cral durante la pausa pranzo, ed erano partite senza sconti anche se avevi la sventura di farle sui tacchi perché eri rientrata da un incontro in centro città, otto fermate di metro o mezz’ora di taxi, a scelta. Scrive Casarini che “da ragazzino di Bologna, ancora pesce fuor d’acqua, mi dicevo che a qualunque ora del giorno e della notte avrei potuto farmi portare lì per trovare aiuto”. L’importante era trovarlo dentro, l’aiuto, nel palazzone-fortezza. Fuori, infatti, le cose erano un po’ diverse.
Lamentano adesso gli abitanti della zona di roghi di spazzatura e generale degrado, ma per essere sinceri nessuno ha ricordi di un’arcadia perduta. Quando, anzi, dopo l’abbandono del palazzo nel 2008, giunse la notizia che all’interno si era installata una comunità di disperati con i fornelletti, i frigoriferi e le coperte, a molti di noi parve che l’area si fosse ricongiunta con la propria natura originaria, con il genius loci di cui tutti, sotto sotto, avevamo contezza e talvolta anche la prova tangibile. Quando Pietro Calabrese approdò in via Rizzoli 2 chiamato da Romiti dopo l’esperienza non esaltante della “Divisione tv Canale 3 e offerte collegate” in Rai, qualunque cosa volesse dire e appunto, si stupì sinceramente che non fosse anche immersa nella nebbia. Non so davvero come la “piattaforma indipendente” Europa Risorse, con i suoi 300 milioni di investimento, riuscirà a “integrare” nel progettone “la natura” oltre allo scalone elicoidale, che fa sapere di aver smontato e di conservare con cura (già nel 2019 il nipote di Portaluppi, l’editore Piero Maranghi che governa fra molte cose Classica HD e la Fondazione intitolata all’architetto, scrisse alla sovrintendenza per avere rassicurazioni, senza ottenere risposta), perché gli unici alberi degni del nome che chiunque sia sicuro di aver visto lungo la via appartenevano a uno slargo ora scomparso dove la sera parcheggiavano camion illuminati come astronavi da cui scendevano le auto rubate in città durante il giorno: mentre gli uomini si scambiavano pezzi e auto intere come figurine, un certo numero di signorine si dava da fare nei pressi, anzi nel parcheggio ora scomparso di fronte alla Rizzoli Editore, riservato ai direttori che però la sera non c’erano, almeno quasi tutti perché qualcuno, appunto, tirava tardi.
Una sera successe il patatrac, non si è mai capito bene se la signorina di turno avesse occupato l’auto del direttore o si fosse semplicemente cambiata d’abito, ma insomma le nottate trascorse a smontare e rimontare il Mondo terminarono, con grande sollievo generale. Non erano già più i tempi in cui il cavalier Rizzoli, “Angelone” per tutti e per leggenda, poteva dare un aumento di stipendio a una segretaria per averla vista spegnere la luce, come scrive una vecchia amica della direzione comunicazione, Diana Buttarelli, ma è evidente che a tutti fosse ben chiaro su che cosa si potesse transigere e su cosa no. Lo stile Rizzoli, appunto, che prevedeva non solo la cura dei propri uffici (con il numero di finestre commisurato alla posizione gerarchica, come in Fiat), ma anche le cortesie fra redazioni. Racconta adesso Graziella Rocca, noblesse del segretariato che approdò ad Amica dopo essere scampata per un caso fortuito, proprio nel fatale 1983, all’ufficio di Bruno Tassan Din a cui la destinavano la laurea in giurisprudenza e una serie di esperienze nel marketing librario, della gran festa che la redazione del femminile, settimanale fino al 2002 e di grande successo per lo spirito iconoclasta e battagliero, organizzò per la chiusura dell’Europeo, nel marzo del 1995, seconda direzione di Lamberto Sechi dopo quella, gloriosa e irripetibile, degli anni Settanta.
Ci furono molte feste, in quei corridoi larghissimi che, volendo, si prestavano a essere allestiti con lunghi tavoli fratini e imbanditi con garbo: un anno Franco Savorelli, il “conte delle pubbliche relazioni” che ha insegnato il mestiere a due generazioni, organizzò una cena di Natale al fatidico secondo piano, che aveva allestito con tendaggi, tovaglie rosse e il catering di Henri Chenot, all’epoca in fase di affermazione. Come riuscì a far arrivare la crème del settore in quella strada a dicembre è la prova definitiva del potere e del prestigio di cui godeva e anche della resilienza, termine che all’epoca non si usava, di quella casa editrice in cui erano entrate, salendo lo scalone per la firma, quasi tutte le penne più brillanti del paese. La Rizzoli iniziava finalmente a riprendersi dallo scandalo della P2 e dal periodo, ignoto ai più, in cui, a causa dell’incriminazione di quasi tutti gli amministratori, l’amministrazione e il controllo che gli stipendi dei giornalisti venissero pagati con regolarità erano stati sbrigati dal capo della divisione pubblicità, Eduardo Giliberti, che molti anni dopo, uscito dalla Mondadori, si sarebbe suicidato.
A cavallo fra gli Ottanta e gli anni di Tangentopoli, dalle carte dei magistrati era uscito un pozzo nero di 80 miliardi di lire, che erano stati utilizzati come argent de poche per le più svariate elargizioni: un miliardo era stato dirottato per la pubblicità sul Corriere della Sera della Dc e del Psi. Cento milioni erano stati consegnati personalmente da Angelo Rizzoli, il nipote del fondatore che da quella storiaccia non si sarebbe mai più ripreso, perdendovi contestualmente l’azienda, a Claudio Martelli come contributo alla rivista Critica Sociale. Centosettanta milioni, il particolare colpì molto l’opinione pubblica, erano andati per le fotografie di Papa Wojtyla in costume da bagno nella piscina di Castelgandolfo, firmate da Roberta Hidalgo e che vennero ritrovate negli originali in pellicola solo nel 2014 grazie al lascito di un collezionista romano. Adesso che una foto media su un periodico viene pagata 80 euro a tre mesi, qualche vecchio membro dell’aristocrazia Rizzoli non se l’è sentita più e ha chiesto il prepensionamento.