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Pagina 69

Spatriati, che nella traduzione dal pugliese ha in fondo un bello schwa

Mariarosa Mancuso

Mario Desiati è il più votato della "settina" e con il suo romanzo presenta le complessità di una generazione "fluida", la sua. Quella di chi, spatriato e irregolare, non ha avuto paura di sentirsi cittadino d'Europa

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Quarto carotaggio di pagina 69. Oggi abbiamo tra le mani il più votato della “settina”. O continueremo a chiamarla cinquina anche se i finalisti sono sette? Pare il dilemma filosofico delle calze di lana riparate con fili di seta, tante di quelle volte che ormai lana non ce n’è più traccia: son le stesse calze di prima oppure no? Esempio perfetto per introdurre Mario Desiati con Spatriati (Einaudi): 244 voti e la posizione di favorito da prima che la votazione cominciasse. E adesso la principale rivale Veronica Raimo con Niente di vero ha vinto lo Strega Giovani.
Interrogato, come tutti i finalisti, su una possibile trasposizione audiovisiva, Mario Desiati è sembrato indifferente alla forma: film, serie, finanche documentario, purché gli interpreti – parola sessualmente non connotata, prendano nota i custodi della lingua ambigua – siano “fluidi”. Ha dalla sua anche il titolo, Spatriati, che nella traduzione fonetica dall’originale pugliese suona “spatriètə”, con in fondo un bello schwa – o dobbiamo dire “una bella schwa” o addirittura scrivere “schwə” che sarebbe autoreferenziale e un sacco non binario?

Ecco gli altri "carotaggi"

Pagina 69 è scritta in prima persona, mai faremmo torto all’autore accorciando la distanza tra scrittore e personaggio. Abbiamo care le antiche parole di Rimbaud “Je est un autre”, andando controcorrente: le differenze lottano per essere ben accolte in società, ma in letteratura sono considerate menzogne, il reato è “appropriazione culturale”. Partiamo: “Più per orgoglio che per reale convinzione mi iscrissi a Scienze politiche in un’università piena di marmi come un camposanto”. Il viaggio evidentemente è più importante dell’arrivo: “Prendevo tutti i giorni il treno per Bari, con il suo mare di due colori, verdognolo a riva, cobalto oltre i frangiflutti”. Pescherecci, petroliere, le strisce bianche degli aerei, e finalmente si giunge a sintesi: “Era città di orizzonti puliti, e nella sua grandezza manteneva un’anima di paese”.
Ora arriva l’Erasmus? No, ma è come se fosse. “L’università significava avere vent’anni, era sempre una festa. Bastava uscire dal tetro edificio delle lezioni per essere rimbalzati da una casa all’altra, da una festa di studenti greci a una di calabresi, ubriachi e leggeri, sguaiati e molesti”. Le parodie baresi degli Oasis tentano una collocazione temporale, le telefonate ai prof di storia antica spacciandosi per Leonida o Giulio Cesare sembrano appartenere a una generazione precedente.
Andiamo a pagina 99 per una controprova. Il capitolo si intitola “Malenvirne”: guastafeste o mina vagante, come un inverno più rigido del solito. Una donna porge al narratore una cravatta rossa: “E’ di mio padre, chissà quante volte l’avrà indossata mentre stava con tua madre”. Imbarazzo. Mario Desiati mette un doppio spazio, che bisogno c’è di spiegare la piccola rivelazione? I due sono in aeroporto, non senza un ultimo sguardo all’acetosella e al tarassaco, agli anemoni e ai ciclamini. Volo per Milano. Ma già a casa erano “spatriètə”, incerti e disadattati.

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