(Foto di Olycom) 

Solo gli sprovveduti leggono ancora

Non leggete i libri, fateveli raccontare

Mariarosa Mancuso

Il manuale di Luciano Bianciardi per i giovani “privi di talento”, che aspirano ad atteggiarsi da intellettuali

Prima cosa notevole: il settimanale che ospitava i consigli di Luciano Bianciardi ai giovani aspiranti intellettuali. ABC, settimanale politico e di attualità con grafica da tabloid: strilli a caratteri cubitali su una bella donna semispogliata – quel che gli anni 60 consentivano. La politica e l’attualità c’erano, la battaglie civili pure, allora le donne nude ne facevano parte. Bianciardi in sei lezioni spiegava i trucchi del mestiere ai giovani, “in particolare quelli privi di talento” (escono da Neri Pozza, con il titolo “Non leggete i libri, fateveli raccontare”). Non è come fare l’ingegnere, che se sei incapace qualcosa crolla, fra intellettuali rischi non ce ne sono. Prima di proseguire, un pensiero commosso ai settimanali popolari di quell’epoca remota e sempre bistrattata. Nel 1962, Fruttero & Lucentini, con lo pseudonimo Prof. Marziano, avviavano su Urania (romanzi di fantascienza, a cadenza settimanale) una rubrica che, tra le altre cose, insegnava a scrivere una storia di marziani senza riempirla di frasi fatte, e a tradurre dall’inglese senza calchi. Con correzione dei compiti che arrivavano numerosi, e preziosi consigli (a volte disattesi oggi dai professionisti).     

Il giovane privo di talento e attitudini, mediocre che più non si potrebbe, si iscrive all’università – una qualsiasi facoltà scientifica, esclusa Ingegneria – senza intenzione di laurearsi. Poi va a seguire le lezioni di Letteratura italiana tenute da un professore che ogni tanto sconfina nel cinema (cosa che negli anni Sessanta lo rendeva una creatura eccentrica, tra i filologi e gli studiosi delle varianti). Il professore con rubrica di critica sul giornale lo prenderà in simpatia e gli farà pubblicare un articoletto, per esempio su un viaggio fatto. L’inizio di una brillante carriera da scribacchino? Macché: l’intellettuale anni Sessanta rifuggiva dal lavoro, il giornalismo era considerato una fatica eccessiva. Parola di Luciano Bianciardi, traduttore a cottimo che ci rimise la salute e la vita (con il fattivo aiuto dell’alcol). Allora non c’erano i computer, non si poteva buttare giù una frase e rigirarla finché veniva bene. Le frasi inglesi venivano girate “in testa”, ogni correzione era fatta con il bianchetto o le pecette, le pagine uscite dalla macchina per scrivere erano palinsesti.     

Farsi raccontare i libri è una necessità, spiega Bianciardi: in Italia escono dodicimila titoli all’anno (oggi hanno superato gli 85 mila). L’aspirante intellettuale si circonderà di amici sprovveduti che ancora leggono. Al cinema andrà con la fidanzata, e sarà lei a fargli il riassunto (approfittando del buio, lui sarà in altre faccende affaccendato). Le recensioni non ne risentiranno: i critici in Italia parlano poco del libro e molto di sé. Se serve una trama, rivolgersi alle recensioni straniere. Capitolo “gesti”. Non devono essere “all’italiana”, rivolti al pubblico o all’interlocutore: orribile spreco di energie. Devono attirare l’attenzione sull’intellettuale che sta parlando. “Angoscia e incomunicabilità si esprimono massaggiandosi la nuca”. “Problematicità e dubbio metodico congiungendo le punte delle dita”. Un vero peccato non essere stati al Salone del libro di Torino per confrontare la teoria con la realtà. Scrive Bianciardi, “lo sporgimento delle labbra a cul di gallina non ha un significato preciso ma fa sempre effetto”. Un intero capitolo è dedicato alla delicata faccenda del prender moglie, con l’acuta osservazione che gli amanti di una stessa donna sono un po’ imparentati tra loro, pur essendo il grado di parentela sprovvisto di nome. Sposare una donna con molti ex mariti moltiplica favori e spintarelle.
 

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