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tiranni

I regimi dittatoriali sono tutti uguali. Lo diceva già Bertolt Brecht

Giulio Silvano

Nei Dialoghi di profughi il drammaturgo tedesco fa parlare con sorprendente attualità un borghese e un anticapitalista, accomunati dall'essere stati costretti alla fuga. Nei discorsi si nomina Hitler, ma spesso e volentieri potremmo sostituire con "Putin"

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Quello che sta succedendo in Ucraina ci ha portato, e ci porta, in questi mesi, a leggere o riprendere in mano autori e autrici che con l’invasione di Putin ci possono permettere di osservare la realtà con maggior senso critico, proponendoci ragionamenti utili e stimolanti, e alle volte deprimenti. E’ successo, ovviamente, con i libri di Anna Politkovskaya e  Vasilij Grossman. Un altro libro, che può unirsi a questa pila, è la nuova edizione dei Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht appena pubblicata, con alcune parti inedite fino a ora, da L’Orma (traduzione di Cosentino e Trabucchi). L’ottica di Brecht è ovviamente quella di un uomo che, fuggito dai nazisti e dopo aver tentato la carriera a Hollywood (fece un film con Fritz Lang), sceglierà di andare a vivere in Ddr. Un drammaturgo che scrisse degli slogan in cambio di un automobile – “E penserai /che stai guidando l’ombra della tua auto”–, e che in certe occasioni giustificò le purghe staliniste, pur posizionandosi sempre come pacifista. Pieno di contraddizioni, certo, e capace di creare sul palcoscenico un effetto di alienazione che mette in crisi il senso del teatro stesso – rompendo la quarta parete, ad esempio – e ad affrontare in modo witty e tragicamente comico i grossi dilemmi del contemporaneo portandoli a un estremo di over analisi socratica attraverso lo scambio di battute.

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Quello che sta succedendo in Ucraina ci ha portato, e ci porta, in questi mesi, a leggere o riprendere in mano autori e autrici che con l’invasione di Putin ci possono permettere di osservare la realtà con maggior senso critico, proponendoci ragionamenti utili e stimolanti, e alle volte deprimenti. E’ successo, ovviamente, con i libri di Anna Politkovskaya e  Vasilij Grossman. Un altro libro, che può unirsi a questa pila, è la nuova edizione dei Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht appena pubblicata, con alcune parti inedite fino a ora, da L’Orma (traduzione di Cosentino e Trabucchi). L’ottica di Brecht è ovviamente quella di un uomo che, fuggito dai nazisti e dopo aver tentato la carriera a Hollywood (fece un film con Fritz Lang), sceglierà di andare a vivere in Ddr. Un drammaturgo che scrisse degli slogan in cambio di un automobile – “E penserai /che stai guidando l’ombra della tua auto”–, e che in certe occasioni giustificò le purghe staliniste, pur posizionandosi sempre come pacifista. Pieno di contraddizioni, certo, e capace di creare sul palcoscenico un effetto di alienazione che mette in crisi il senso del teatro stesso – rompendo la quarta parete, ad esempio – e ad affrontare in modo witty e tragicamente comico i grossi dilemmi del contemporaneo portandoli a un estremo di over analisi socratica attraverso lo scambio di battute.

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I Dialoghi di profughi sono appunto degli scambi tra due uomini costretti ad andarsene dopo il successo hitleriano e la guerra – cosa che Brecht fece dopo che diedero fuoco al Reichstag – che discutono su Hegel, sul patriottismo, sul mettere radici, sui passaporti, e su altri effetti e motori dei nazionalismi. Discutendo di democrazia uno dice: “Non può negare che la Germania aveva un aspetto assolutamente democratico, finché non ha assunto quello fascista”. I due si incontrano per caso al bar della stazione, uno è un borghese, professore di fisica, l’altro un proletario anticapitalista, e sono accomunati soprattutto dall’aver lasciato il paese d’origine. “La migliore scuola di dialettica è l’emigrazione. I più acuti dialettici sono i profughi. Essi sono tali appunto a causa di determinati cambiamenti, e quindi non fanno altro che studiare i cambiamenti. Dai più piccoli indizi presagiscono i più grandi avvenimenti”, dice a un certo punto uno di loro.

 

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Brecht scrisse il libro tra il ’40 e il ’41 mentre si trovava in esilio in Finlandia, a Helsinki, aiutato dalla benestante scrittrice estone Hella Wuolijoki, dopo esser stato per un po’ in Danimarca e in Svezia (“cambio paese come si cambiano le scarpe”, diceva). Uno degli effetti dell’invasione di Putin, così come di quelle di Hitler, è produrre una massa incredibile di fuggiaschi e di esuli – circa quattro milioni e mezzo, ad oggi, dall’Ucraina (come si può vedere in una delle mappe di Il mondo dopo Putin, volume in allegato con questo giornale). E se il paragone tra i due a volte spaventa qualcuno – tutti i parallelismi storici sono fallaci di per sé, ça va sans dire – a legger quest’opera di Brecht in certi brani si potrebbe benissimo sostituire il nome del Führer con quello del presidente russo, soprattutto su come governano il proprio stato, su come controllano la libertà di stampa. “Ci sono naturalmente quelli che non la pensano come lui, ma il guaio è che ben presto non è solo lui a dominare, bensì pure le sue opinioni. Egli ha infatti i mezzi per soggiogare la loro mente. Per esempio è soltanto lui che dirama le informazioni sugli avvenimenti”. In questo, tutti i regimi dittatoriali sono uguali, ogni democrazia liberale è diversa a modo suo.

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