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l'intervista

"Putin ha trasformato il russo nella lingua degli assassini", ci dice il dissidente Shishkin

Giuseppe Fantasia

Lo scrittore cresciuto a Mosca ha lasciato il paese dopo l'invasione della Crimea. "Mi piacerebbe tornare, ma l'aria è irrespirabile. I crimini di Putin sono anche contro la cultura russa", racconta dal Salone del libro. In libreria con Punto di fuga, vincitore del Premio Strega Europeo 

“Di questi tempi, fa davvero male essere russi: siamo al terzo mese di guerra, una guerra fatta – dicono – per salvare la lingua, il popolo e la cultura russa, ma in realtà non è così. Ora i crimini non sono soltanto contro gli ucraini, ma anche contro la nostra cultura: la lingua russa non è più associata alla grande letteratura, ma a quel quadro mostruoso e orripilante che è stata la strage a Bucha. Putin non ha cuore e ha trasformato la mia lingua in quella degli assassini. Il mio obiettivo? Difendere oggi tutto quello che ci ha tolto e continua a togliere in tal senso: la mia lingua, il russo, e la nostra letteratura. Mi piacerebbe tornare nel mio paese, ma la realtà è insostenibile e l’aria irrespirabile”. Al Salone del Libro di Torino, edizione numero 34, la più frequentata di sempre (168mila presenze) – abbiamo incontrato Mikhail Shishkin, lo scrittore russo dissidente, vincitore (ex aequo con Amélie Nothomb con Primo sangue, edizioni Voland) del Premio Strega Europeo con il suo romanzo Punto di fuga (edizioni 21lettere, la traduzione è di Emanuela Bonacorsi). 


Nato nel 1961 e cresciuto nel centro di Mosca, dal 2014 ha lasciato la Russia in contrasto all’invasione della Crimea. In patria è considerato un traditore dagli ambienti vicini al governo di Putin e in questi giorni si sta impegnando molto con articoli e dichiarazioni per dare una voce ai russi e alla cultura russa che si oppongono alla guerra. Quando non lo fa lui personalmente, a "parlare" ci pensano i suoi libri, tradotti in oltre 30 lingue. Il suo Punto di fuga – una delle opere più belle e rappresentative della sua produzione con cui, prima dello Strega Europeo (promosso dalla Fondazione Maria e Goffredo Bellonci e da Strega Alberti Benevento), aveva già vinto nel 2010 il Big Book Prize – è un romanzo epistolare che raccoglie le lettere di due giovani innamorati russi – Volodya, uno scrittore ossessionato dalla morte, che si arruola volontario nella guerra dei Boxer, e Sashka, la sua amata – separati dalla guerra e dallo spazio, ma soprattutto dal tempo. 


“Questo libro è iniziato molti anni fa – spiega al Foglio – dopo una conversazione con mio padre che aveva solo 18 anni quando andò in guerra nel 1944 e nel 1945. Voleva solo sopravvivere, sposarsi e avere dei bambini e quando mi raccontava, nonostante fossero passati tanti anni, continuava ad essere sconvolto. Era troppo giovane quando fu chiamato alle armi e a quell’età un uomo non è ancora pronto. Nessuno lo è mai”. Quando scrivevo questo romanzo – aggiunge – sapevo che la guerra ci sarebbe stata. Del resto, in Russia non è avvenuta la de-stanilizzazione e non c’è stato il processo di Norimberga contro il partito comunista, come risultato abbiamo avuto la dittatura. 


"Il libro – continua l'autore – riflette sul percorso verso la saggezza, su cosa sia importante davvero. Ci sono due vie per raggiungerla: un percorso che segue Sashka nel libro, una vita monotona e quotidiana, e un percorso più maschile, mi viene da dire, che è stato quello di mio padre, un cammino che costeggia la morte stessa. Tutti questi particolari non si possono inventare e nello scriverlo, io non ho inventato nulla. Dove non ho potuto fare diversamente, ho usato metafore e dato ai soldati nuove parole e nuove vite come ai contadini che nelle situazioni di disagio hanno acquisito più calore umano, comprendendo cosa sia la vita e l’amore”. 

"Uno come Putin non conosce il vero significato della parola amore e non sa darlo”, continua Shishkin, che è stai definito dal Guardian "il migliore scrittore russo vivente". “Lui se ne andrà, ma il il dolore e l’odio che ha creato resteranno a lungo nelle anime e nelle menti di molti. La nostra è una realtà ingiusta, ma resteranno storie come le mie che definiscono realtà diverse create dalla letteratura che si oppone alla guerra, perché parla sempre del bisogno umano d’amore”. 


Il suo – come lo definisce lui stesso – “è un romanzo sull’immortalità”, perché l’autore, cioè lui, morirà, ma i suoi personaggi e le sue storie no, “quelle continueranno”. “È importante che un libro ci sopravviva, questo è il senso dell’arte. Bisogna capire che la morte è lo stesso dono come la vita, bisogna recepirla e viverla come un dono che ti dà la possibilità di percepire questo amore. Solo la perdita ti fa capire l’importanza di chi hai perso. Lo scrittore, dunque, ha il compito di parlare e di raccontare: non farlo significherebbe sostenere l’aggressore”. Da non sottovalutare, dice prima di salutarci, è il processo di scrittura che per lui “è come una trasfusione di sangue”. “Da ragazzo, avevo la nausea quando dovevo leggere per forza i libri imposti da Bréžnev. Poi, per fortuna, ci pensavano i libri proibiti a darmi vita. Da scrittore, condivido con i lettori le cose più importanti e indispensabili ed è per questo che il mio e il loro gruppo sanguigno deve essere lo stesso. Se non c’è, il libro può anche uccidere. Per fortuna, è compatibile con tanti lettori in tutto il mondo e, almeno per ora, è una salvezza”.  

 

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