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Yasmina Reza non si tira indietro neanche davanti ai picnic ad Auschwitz

Mariarosa Mancuso

In “Serge” (Adelphi), la scrittrice racconta le tensioni di una famiglia nel cuore della tragedia

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Per la madre malata i figli fanno portare in casa un letto ospedaliero (alti, perché l’infermiera non si rompa la schiena di fatica, e per lo stesso motivo con le barriere laterali mobili). La testiera viene sistemata contro una parete “in cui era piazzato Vladimir Putin in forma di calendario, intento ad accarezzare un ghepardo”. Regalo di una badante russa. La mamma – francese, di famiglia ebraica – per Putin aveva un debole, “trovava che avesse gli occhi tristi”.

“Nulla sul serio” – “Nothing Sacred”, l’originale rende meglio l’idea – era il titolo di una commedia diretta da William Wellman nel 1937: complice un giornalista, una fanciulla finge una grave malattia per godersi un po’ di bella vita. Yasmina Reza non si è mai tirata indietro davanti a nulla. Ha intitolato una raccolta di racconti “Felici i felici”. In “Carnage” mette in scena un assortimento di genitori isterici (i ragazzini hanno fatto a botte, gli adulti perbene si intromettono e si scatena una guerra totale): “Art” sbeffeggiava l’arte contemporanea: ce n’era bisogno, il copione teatrale è tradotto e rappresentato in trenta lingue. 

 

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In “Serge” (Adelphi) la mamma non sopravvive al letto attrezzato. La famiglia – con differenti atteggiamenti, dall’entusiasmo alla rassegnazione – decide di andare qualche giorno ad Auschwitz: discendono da ebrei viennesi di classe media che credevano nell’assimilazione. Forza trainante, la giovane Josephine. “Si è appena fatta pagare a peso d’oro un corso di sopracciglia”, fa notare il genitore, e ora vuole visitare la terra dove sono morti gli avi (senza peraltro aver imparato la corretta pronuncia di Auschwitz).

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Serge è uno dei tre figli della signora Popper “scaraventata nell’aldilà dal letto ospedaliero” (Yasmina Reza non stava solo arredando la stanza, i dettagli sono lì perché poi servono, per questo la letteratura risulta più interessante della vita vissuta). Jean è il narratore del romanzo, la femmina si chiama Anna detta Nana. Josephine è la figlia di Serge, il maggiore dei tre: sfuggente, invidiato, ammirato, un cialtrone dal carattere scorbutico che incombe su tutti. Mariti in carica: Anna ha sposato uno spagnolo di nome Ramos Ochoa, “il re delle attività nebulose”; insieme hanno un figlio di nome Victor che si è appena laureato all’università della cucina. Amanti ed ex amanti, qualcuno con prole,  vecchi gaudenti.

L’elenco misura il mimetismo di Yasmina Reza – parigina figlia di padre iraniano e madre ungherese, come ungheresi sono gli antenati della famiglia di “Serge”. Chiacchierano, litigano, si rinfacciano vecchi torti, cercano di sparigliare il romanzo famigliare che finora ha visto Serge in posizione dominante. Nana era la piccola di casa, torturata nei giochi e presa in giro per la scelta del marito: “il padre l’avrebbe preferita nell’esercito, ma anche il marito ricco era un’opzione”. Jean osserva, scrive, ricorda: “Quando andavamo d’estate al campeggio ebraico la mamma imponeva una gigantesca sacca di medicinali, più il siero antivipera”. Auschwitz è affollata di gente in canottiera, vestitini a fiori, la borsa termica per il picnic (vedere per credere il documentario del regista ucraino Sergei Loznitsa intitolato “Austerlitz” – non è un refuso, è un omaggio a W. G. Sebald). Gli attriti si fanno sentire, infiammati dalle differenze di età, e dalla vicinanza alla tragedia. Yasmina Reza registra tutto. “Sto avendo un infarto, dice Serge nel cortile dove c’è il muro delle esecuzioni”. Gli altri “si rimpinzano di infelicità” e i solito furbo avverte: “Il filo spinato è falso, lo sostituiscono ogni dieci anni imitando il modello dei nazisti”.

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