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Camilla Grudova: buon vecchio gotico mescolato a buon vecchio surrealismo

vanni santoni

Alfabeto di bambola sembra essere stato scritto prima del condizionamento delle scuole di scritture: meglio così, ce ne godiamo l'originalità

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Dopo un buon mezzo secolo di egemonia, terminata o agli ultimi fuochi l’èra dei Roth, degli Updike, dei McCarthy, dei DeLillo, delle Atwood, delle Munro, la letteratura nordamericana è alle corde, e i lettori avveduti guardano altrove: al Sudamerica dei Bolaño, dei Pauls o dei Fresán, all’est Europa delle Tokarczuk, dei Krasznahorkai, dei Gospodinov o dei Cartarescu… Ciò non accade per caso: è frutto della filiera master in creative writing–agenzie letterarie–editori che ormai negli Stati Uniti e in Canada monopolizza l’accesso alla pubblicazione. Tutti gli aspiranti autori (o almeno: tutti quelli con qualche chance) vengono dalle scuole di scrittura, che a loro volta inquadrano gli studenti in modo che riescano a essere rappresentati subito da un’agenzia, la quale a sua volta li (pre)condiziona a produrre un manoscritto spendibile con un grande editore. Il risultato è una produzione monocorde, in cui il problema non è tanto il politicamente corretto (come ravvisava Millet, che aveva inquadrato il problema ma non la causa) quanto la micidiale omologazione tematica e formale. Capita, allora, sbirciando le nuove uscite dal Nordamerica, che le cose più interessanti si scovino nelle raccolte di racconti d’esordio, per una ragione tragicamente lineare: essendo sovente composte anche da cose scritte prima del condizionamento scolastico e d’agenzia, conservano ancora un alito di originalità.

E’ il caso di Camilla Grudova da Toronto, che con i tredici racconti del suo Alfabeto di bambola (il Saggiatore, traduzione di Andrea Morstabilini, pp. 208, euro €19) aggiunge un tassello di sicuro interesse al crescente edificio del new weird transnazionale. “Nuovo strano”, oppure buon vecchio gotico più buon vecchio surrealismo: quale che sia la ricetta alla base del mix, la narrativa breve di Grudova funziona. Funziona anzitutto perché si muove entro un perimetro preciso, se vogliamo ristretto – il titolo è del resto anche un ammicco a una… Casa di bambola – ma di cui l’autrice ha pieno controllo. E’ un campo immaginario situato quasi sempre in interni e popolato, prima ancora che da persone, da oggetti, come da lezione surrealista: aghi, orologi, gabbiotti da vecchio arcade, teiere, macchine da cucire, soprammobili di ogni tipo e naturalmente bambole popolano i testi a ogni livello, creando un’atmosfera tra la Wunderkammer e la bottega di bric-à-brac – naturalmente infestata, in stile Safarà. Un po’ opprimente? Senz’altro, ed è voluto: dietro al teatrino del fantastico, controllato con rigore da burattinaia, si cela una riflessione sulla condizione femminile moderna e contemporanea, in cui la reificazione – la riduzione a bambola, o a pezzi di una bambola – non è tanto un rischio quanto il punto di partenza. 

Va tuttavia detto che il primo passo non è incoraggiante: Scucirsi, in originale Unstitching, il racconto che apre la raccolta, sfrutta un concetto simile a quello di un racconto notissimo (e molto più riuscito) di Etgar Keret, Unzipping. Per fortuna, andando avanti, Grudova acquista una sua originalità, specie laddove ai suoi iconici oggetti affianca, più che persone, ibridi uomo-animale – un uomo-aracnide, una donna-lupo, un polpo che ragiona come un umano… –, o quando, come in Moccolo, non tenta neanche di fare ironia, ma si lascia sprofondare in un ambiente da incubo fino alle estreme conseguenze; o ancora quando, come nel micro-racconto che sfrontatamente dà il titolo alla raccolta, non si preoccupa nemmeno di dirci cosa intenda, lasciando che si manifesti un frammento incomprensibile ma evocativo, come caduto da un sogno inquieto.

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Nella bandella si evocano Angela Carter e Shirley Jackson, oltre alla Atwood; altri scomodano (inopinatamente) Kafka, ma forse il vero nume tutelare di Camilla Grudova è Bruno Schulz. Non è poco: in attesa di un agente o un editore che la indirizzi verso un romanzo “spendibile” – e sperando che ciò non accada –, ce la godiamo così, al naturale, quanto è naturale un incubo che viene a galla dopo aver mangiato qualcosa di malsano.

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