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Il foglio del weekend

La russificazione di Gogol’

Stefano Cingolani

L’autore de “Le anime morte”, tormentato e smarrito, era ucraino ed europeo. Mosca lo usò anche da morto

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Chocol, ciuffo: lo chiamavano così gli impiegati del ministero degli Interni a San Pietroburgo mentre metteva insieme sette paghe per il lesso e si annoiava sapendo che non avrebbe mai fatto carriera perché era un artista, forse attore, certamente poeta. Chocol, lo irridevano lungo la prospettiva Nevskij dove tutto è perfetto e dove “tutto è inganno, tutto è sogno, tutto è diverso da quel che sembra”. Ciuffo come quello dei cosacchi che avevano spadroneggiato in Ucraina, “contro i musulmani, e i turchi, e il tartarume; e contro i polacchi quando cominceranno a intraprendere qualcosa contro la fede nostra”, li incitava Taràs Bul’ba, protagonista di uno dei suoi più avventurosi e drammatici racconti.
 

Perché era nato anche lui in Ucraina tra i “Piccoli russi” dileggiati dai “Grandi russi” con quel ridicolo nomignolo. Ma di ciuffi, sulla testa di Nikolaj Vasil’evič Gogol’-Janovski, non c’era neanche l’ombra. Chi lo ha conosciuto lo ha descritto come un uomo basso, con lunghi capelli biondastri pettinati “à la moujik”, baffetti corti, un naso incredibilmente lungo e affilato, piccoli occhi castani dai quali gettava occhiate di sfuggita quasi presago della fuga senza fine che sarebbe stata la sua vita. Lo prendevano in giro per i panciotti sgargianti, le eccentriche “mise” a cavallo tra provocazione e cattivo gusto, le pose con le quali nascondeva la matassa dei suoi complessi: da quello d’inferiorità sempre pronto a ribaltarsi in patologica mania di grandezza, all’ossessione per la propria bruttezza e al terrore nei confronti delle donne. Fino all’omosessualità svelata solo a Roma con il giovane Iosif Michàilovic V’el’gorskij, che morì di tisi tra le sue braccia. 

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“Andrò all’estero, laggiù metterò fine a quell’angoscia che ogni giorno mi buttano addosso i miei compatrioti”, confessò prima di partire colui che pensava di essere il più grande scrittore dopo Aleksandr Sergeevič Puškin, e lo era davvero. Lui, un ucraino che voleva a tutti i costi diventare russo più dei russi, ma si trovava bene solo in Europa. Lui così radicato nella sua steppa eppure sempre altrove, “sempre nel mezzo a metà strada tra il tutto e il nulla”, scrive Serena Vitale, proprio come Pavel Ivanovič Čičikov il protagonista de “Le Anime Morte”. Chi più di Gogol’ può oggi rappresentare l’Ucraina sospesa tra est e ovest, terra di confine il cui nome potrebbe anche essere tradotto con Marca? Eppure anche lui, come il proprio paese, ha subito la dura legge della russificazione. Per capirlo occorre ripercorrere a grandi linee la sua biografia.

 

Gogol’ nasce a Bol’šie Sorocincy, nella provincia di Poltava, distretto di Myrhorod, che sarà protagonista della sua seconda raccolta di racconti ucraini, il primo aprile del 1809 secondo il calendario gregoriano. Vladìmir Nabokov che lo amava e lo sentiva così vicino, ironizza su questa data quasi premonitrice. Il padre, piccolo possidente terriero, per diletto scrive commedie in ucraino con un certo successo, la madre, che ha altri quattro figli, lo considera difficile quanto geniale, gli sopravviverà e resteranno in stretto contatto, per lo più epistolare, fino all’ultimo. Nikolaj studia di malavoglia ed esce dal collegio con il grado più basso nella tabella dei ranghi dell’impero. Il 13 dicembre 1828 parte per Pietroburgo con il suo compagno di studi Aleksandr Semenovic Danilevskij, che gli resterà amico. Scrive e cerca un impiego in entrambi i casi senza successo, prova anche a fare l’attore, pubblica un poema sotto falso nome ed è un disastro. Infine entra al servizio dello stato per occuparsi di beni patrimoniali; resiste appena un anno poi cerca di insegnare storia nell’Istituto Patriottico, ma soprattutto scrive le sue novelle ucraine, le “Veglie alla masseria presso Dikan’ka”. Il 20 maggio 1831 avviene il fatidico incontro con Puškin che lo apprezza, lo aiuta a pubblicare alcuni racconti e commenta con entusiasmo le “Veglie. Nel 1833 collabora con il teatro Bol’šoj, scrive racconti surreali come “Il ritratto” e “Il Naso”, fa la spola tra Kiev e Pietroburgo, e ciò vale anche per la sua ispirazione narrativa. Nel 1835 esce la seconda raccolta ucraina, Racconti di Mirgorod con il Taras Bul’ba. L’anno successivo debutta al Bol’šoj la commedia Il Revisore letta in anteprima dal grande poeta russo. Gogol’ comincia le sue peregrinazioni europee, soprattutto in Germania e Svizzera, finché nel febbraio del 1837 apprende la morte del suo mentore Puškin ucciso in duello dal presunto amante della moglie. E decide di lasciare la Russia per Roma, dove arriva il 25 marzo giorno di Pasqua. Si stabilisce subito in via Sant’Isidoro (oggi via degli Artisti) al numero 17, vicino a piazza Barberini.  E si dedica a quello che chiama il suo poema, Le anime morte. La tragica fine dell’amato Iosif lo spinge a rimettersi in viaggio prima a Vienna poi a Mosca. Torna a Roma nell’autunno 1841, prende alloggio in Strada San Felice (poi via Sistina) al numero 126. 

 

Roma e la Russia erano unite da un particolare, profondo legame nell’irreale mondo di Gogol’ sottolinea Nabokov –  Roma era per lui un luogo in cui aveva periodi di salute fisica che il Nord gli negava. I fiori dell’Italia lo riempivano di un forte desiderio di essere trasformato in un Naso ‘con le narici delle dimensioni di due grandi secchi, così da poter inalare quanti più aromi possibile, quanta più primavera’. Vi era anche quello speciale cielo italiano. ‘ora tutto d’argento, vestito di un fulgore di raso, ora blu, come ama mostrarsi attraverso gli archi del Colosseo’. Poi c’era Ivanov il grande pittore russo. Per più di vent’anni lavorò al quadro L’apparizione del Messia al popolo. Il suo destino era per molti versi simile a quello di Gogol’ con la differenza che almeno Ivanov terminò il suo capolavoro”. Nell’enorme tela oggi al museo Tret’jakov di Mosca si possono vedere i volti di Gogol’ e V’el’gorskij in quelli dei due peccatori in basso a destra in attesa del battesimo.

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 “Che dirti dell’Italia? E’ stupenda – scrive Gogol’ il 2 aprile 1837 in una lettera a Danilevskij – Stupisce meno la prima volta di quanto lo faccia in seguito. Solo esaminandola sempre più da vicino vedi e senti il suo segreto incanto. Ci si innamora di Roma molto lentamente, a poco a poco, ed è per tutta la vita. In una parola tutta l’Europa è fatta per essere guardata, ma l’Italia è fatta per viverci”. E la Russia? Danilevskij è quasi sorpreso. In Russia Gogol’ tornerà, eccome, per essere celebrato e criticato, per soffrire nello spirito e nella carne, per mortificare il suo corpo e deprimere la sua anima, lasciandosi morire tra atroci tormenti.

Lo scrittore vive il suo periodo più fruttuoso e creativo, tra piazza Barberini, piazza di Spagna e il Caffè Greco dove ogni mattina faceva colazione e incontrava il mondo cosmopolita di artisti e intellettuali, uomini del nord come gli scultori danesi attorno a Bertel Thorvaldsen o un altro scrittore in preda alle sue nevrosi e alla sua omosessualità come Hans Christian Andersen (anche lui in via Sistina pochi anni prima tra il 1833 e il 1834) e la folta colonia russa. Il caffè conserva una miniatura di 7 per 9 centimetri, un ritratto a matita e colore firmato da Federico Gubinelli. Osi ggi trova in un angolo non accessibile al pubblico. E’ un Gogol’ biondo, paffuto, vestito di chiaro con un’aria pacificata ben diverso dal personaggio severo, ossuto, con naso lungo e appuntito e in abiti scuri raffigurato altrove, come rivela Serena Prina che ha curato per Mondadori le opere complete di Gogol’. “Nessuno può annojarsi a Roma fuorché quelli che hanno l’animo freddo come gli abitanti di Pietroburgo”, scrive in italiano. Ama il parmigiano, i maccheroni, i ravioli, i broccoli romani, l’abbacchio, il marsala, il caffè con la panna, il latte di capra mescolato con il rum, ribattezzato gogol’-mogol’ e i dolci di ogni tipo. Come pacificato con se stesso, compone quasi tutta la prima parte delle “Anime morte” e progetta le altre due: doveva essere un viaggio dantesco, ma resta solo l’inferno e cinque capitoli del purgatorio, la redenzione non arriverà mai. Quel libro lo inquieta, non lo soddisfa e lo accompagnerà nei suoi viaggi compiuti con una frenesia sempre più inquieta, nevrotica. Al pari di Cicikov, l’immortale protagonista del suo capolavoro, lo scrittore passa buona parte della vita in una corsa frenetica: Dresda, Bad Gastein, Salisburgo, Monaco, Venezia, Firenze, Roma, Mantova, Verona, Innsbruck, Salisburgo, Karksbad, Praga, Berlino, Francoforte, Parigi, Nizza, ancora Roma e Gerusalemme. 

 

Nel 1847, Padre Matvej “un prete russo fanatico che combinava l’eloquenza di Giovanni Crisostomo con le più tenebrose fisime dei Secoli Bui – ricorda Nabokov – supplicò Gogol’ di rinunciare del tutto alla letteratura e di occuparsi dei doveri devozionali, come il preparare l’anima per l’Altro Mondo secondo il programma tracciato dallo stesso padre e da padri simili”. Lo scrittore che aveva solo 38 anni, anche se fiaccato nel corpo e nello spirito, ce la mise tutta per resistere. Matura in quel periodo la sua crisi spirituale. Il 1848 l’anno delle rivoluzioni liberali in tutta Europa, trova Gogol’ a Napoli da dove viene “scacciato da sommosse politiche di ogni genere”, scrive alla sua amica principessa. S’imbarca sulla nave Capri diretta a Malta, poi a febbraio raggiunge Gerusalemme dove prega sul Santo Sepolcro, ma è debole e smarrito, pressato da padre Matvèj che gli chiede con sempre maggiore forza di rinunciare a scrivere. “Non so se questa è davvero la volontà di Dio”, gli risponde Gogol’. Nell’aprile di quell’anno sbarca a Odessa. “Ho rimesso piede sul suolo russo”, scrive alla madre. Comincia il periodo più triste, si reca a Mosca, in Ucraina, di nuovo a Mosca, lavora al grande progetto, digiuna, prega, pensa di sposarsi e chiede la mano di Anna Michàjlovna V’el’gorskaja che lo rifiuta. Gogol’ ne resta sconvolto e prostrato. 

 

Sono anni di tormenti anche fisici (si sottopone a digiuni e a salassi coperto di sanguisughe) e di insoddisfazioni spirituali, finché nel 1852, l’11 febbraio, nella casa del conte A.P. Tolstòj dà alle fiamme la seconda parte delle Anime morte. Il 13 rifiuta il cibo e beve soltanto vino e acqua. Prega lungamente, i medici continuano a curarlo inutilmente. Le sue ultime parole sono: “La scala, presto la scala…”. Si spegne il 21 febbraio alle 8 del mattino. Il funerale tre giorni dopo sarà un evento nazionale: la bara coperta di camelie, sulla sua testa una corona d’alloro, tra le mani un mazzo di semprevivi. Tutti vogliono inchinarsi davanti al defunto, baciargli la mano, prendere almeno un fiore per ricordo e a stento la polizia riesce a tenere a bada i fan. Dietro la bara portata a braccia fino al monastero di San Danilo, una strabocchevole folla piangente. Insomma, vengono russificate anche le esequie. 

 

Gogol’ non è uno scrittore realistico, insiste Nabokov. Nonostante L’Ispettore generale la sua più importante pièce teatrale, venga considerata una condanna al vetriolo della burocrazia zarista e gli sia costata polemiche e condanne. Così come Le Anime morte, giudicata una beffarda denuncia della servitù della gleba che verrà abolita solo nel 1861, quasi vent’anni dopo la pubblicazione del romanzo. Il grande critico Vissarion Grigor’evič Belinskij celebrò il libro, “un’opera tipicamente nazionale, sorge dal più profondo della vita del popolo: è fedele, spietata, patriottica”. Nabokov non è d’accordo.  “Quale esperienza ha avuto Gogol’ della Russia di provincia? Otto ore in una locanda di Podol’sk, una settimana a Kursk, il resto lo aveva visto dal finestrino della vettura su cui viaggiava e a ciò aveva aggiunto i ricordi della sua gioventù essenzialmente ucraina trascorsa a Mirgorod, Nezi, Poltava…”. Per Nabokov, che odiava l’arte politicamente o ideologicamente impegnata, quella succube del messaggio, “la grande letteratura corre lungo il filo dell’irrazionale”. Il Cappotto, allora, è l’altro angoscioso capolavoro, ma la stessa fuga continua di Cicikov a bordo della sua trojka diventa un incubo diabolico che fa morire anime vive, uomini in carne ed ossa, e rivivere anime morte, uomini esistenti solo sulle cartelle fiscali in attesa del prossimo censimento che forse non verrà mai.

 

Negli ultimi anni della sua vita Gogol’ si è fatto prendere dall’ansia profetica che accompagna tutti i grandi scrittori in lingua russa. Ha corretto persino Taras Bul’ba per russificarlo un po’ e s’è imbevuto di messianesimo ortodosso e slavofilo soprattutto nei “Brani scelti dalla corrispondenza con gli amici” che hanno sconcertato e scandalizzato gli intellettuali occidentalisti, allarmando anche la censura e tutti coloro che oggi come allora vogliono rinchiudere lo scrittore in qualche scatola prefabbricata. Il finale della prima parte nel capolavoro incompiuto, Le anime morte, è il più eloquente epitaffio di se stesso e delle sue angosce: “Non sei forse così anche tu, Russia, che quale ardita trojka insorpassabile voli via? Fuma sotto di te la strada, rimbombano i ponti, tutto si perde all’indietro e resta alle spalle… Russia, dove stai volando, da’ una risposta! Non dà una risposta”. Parole profetiche, non “l’imbonimento di un prestigiatore”, checché ne dica Nabokov.

 

E’ stata la Russia ad annettersi Gogol’ al culmine della sua fama; ma è stato anche il Piccolo russo a voler diventare Grande russo. Adesso siamo noi occidentali a ignorare ogni differenza storica e culturale, a cadere nella propaganda da “stessa faccia stessa razza”. Sul muro del palazzo in via Sistina c’è una lapide in omaggio “al grande scrittore russo”. Del resto gli italiani, come tutti gli europei, hanno scoperto solo nel 1991, con la dissoluzione armata della Jugoslavia, che gli slavi del sud non sono tutti uguali e, divisi da storia, cultura, religione, erano pronti a uccidersi. Quanto all’Ucraina, ha celebrato Gogol’ come suo figlio innalzandogli statue solo dopo aver fatto cadere quelle di Lenin, quando ha riconosciuto anche ad altri scrittori, tra i più grandi del Novecento come il cattolico ortodosso Michail Afanas’evič Bulgàkov e l’ebreo Vasilij Semënovič Grossman, i loro certificati di nascita. Ora a Mosca o a Roma e a Parigi, c’è chi vorrebbe stracciarli di nuovo sull’altare della “invincibile Russia”.

 

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