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Sogni e inganni

L’indissolubile intreccio fra vita psichica e teatro nella scrittura di Hofmannsthal

Elisa Veronica Zucchi

La precocità di un autore che fa capolino “in calzoni corti” sulla scena viennese. La cerimonia del linguaggio si serve dunque di una maschera teatrale, filtro e protezione di un pudore arcano e ignoto

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La voce di Hugo von Hofmannsthal suona come una fiaba. Talvolta pare una ninna nanna, ma poi no, stride d’orrore ovattato, ritorna la fiaba, parla la magia, scalda la luce. Recentemente è stato pubblicato, finora inedito in Italia, Il soldato Schwendar, una silloge di quattro racconti (a cura di Claudia Ciardi, Via del Vento edizioni, 2021), in cui si ravvisano, oltre a dettagli autobiografici, quei particolari moti spirituali che animano la sintassi, dondolante fra angoscia e desiderio di pace, dell’intera opera dello scrittore, drammaturgo e librettista austriaco. Il sodalizio con Richard Strauss, con cui intrattiene un fitto epistolario (edito da Adelphi nel 1993), nonché le collaborazioni con Max Reinhardt evidenziano l’indissolubile intreccio, nella sua scrittura, fra vita psichica e melodramma.
Il memorabile incontro fra Schnitzler e l’ancora studente Hofmannsthal, raccontato da Zweig ne Il mondo di ieri, opera nostalgica sull’epopea della Felix Austria, sottolinea la precocità di uno scrittore che fa capolino “in calzoni corti” sulla scena viennese fin de siècle. Di origine ebraica, nato nella capitale dell’Impero austro-ungarico nel 1874, lo scrittore si trova a fare i conti con lo spirito edonistico e cristallizzato di una Vienna barocca, vuota e priva di umorismo.

 

Grava su di lui una tremenda fatalità”, ebbe a dire Claudel a Burckhardt. Egli cammina sugli argini di un doppio smarrimento: quello politico e culturale, accompagnato da un vuoto di valori sempre più stringente, e quello individuale, generato dal sentimento di colpa di un borghese che “tradisce” l’assimilazione sociale allo spirito della classe in cui è cresciuto, trincerandosi nella produzione artistica e in un mondo onirico e teatrale. Da bambino, con il padre, è solito frequentare il Burgtheater. Come scrive Broch in Hofmannsthal e il suo tempo (Adelphi, 2010), l’andare a teatro “rappresentava il culmine di quel gioco estetico-estetizzante, nel quale e con il quale entrambi, già uniti dall’affetto, costruivano e rendevano durevole il loro rapporto”. 

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Così impara una comunicazione simbolica, basata su un rituale. La cerimonia del linguaggio si serve dunque di una maschera teatrale, filtro e protezione di un pudore arcano e ignoto. Nell’incompiuto Andrea o I ricongiunti il protagonista, alter ego dello scrittore, giunge da Vienna a Venezia, la città delle maschere per antonomasia, dove, inoltre, abita vicino a un teatro. Egli ha l’impressione di essere “uno che sogna e che nel sogno parla”. I simboli onirici traducono l’oscuro. Lord Chandos, ennesimo alter ego, grida la desolazione del muto di fronte all’indicibile, anticipando in un certo qual modo il clima sempre viennese del Wittgenstein del Tractatus; inoltre, esplica il carattere simbolico della lingua, la sua assenza vertiginosa di fronte al sostanziale baluginio dell’esistente che, d’improvviso, un sentimento divino infiamma e sogna. La Torre, il dramma a cui Hofmannsthal lavora tutta la vita, ricalca La vita è sogno di Calderón: Sigismund vive prigioniero nell’oscurità di una torre e il fuori, la luce, sembrano illusori. 

 

Quando la platea è buia, si illumina il palcoscenico dalle quinte di sabbia, come friabili sono gli argini che l’angoscia dissolve. In Storia di soldati, uno dei racconti de Il soldato Schwendar, il soldato assiste a un disparire che è il preludio di un’epifania: “Poi quella lenta luce si dissolse e tutto fu come prima. Ma la sua anima fu presa con soprannaturale rapidità, dal presentimento, dalla certezza che fosse stato un segno, un segno per lui, il riflesso del cielo squarciato, il riflesso di un angelo che scivolava sull’edificio”. 
 

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