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Bastarono sette mesi a Roma per far rimpiangere a Joyce la sua Irlanda

Giulio Silvano

L'Ulisse compie un secolo esattamente oggi (venne pubblicato per la prima volta il 2 febbraio 1922). Il miglior modo per conoscere lo scrittore irlandese è farsi guidare da Enrico Terrinoni e il suo nuovo saggio

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James Joyce trascorse a Roma sette mesi e sette giorni. Arriva nel luglio del 1906 e si stabilisce a vivere in via Frattina 52, con la moglie Nora e il figlio Giorgio. Ha paura del Tevere, dei fulmini, dei cani. Osserva la targa che ricorda il passaggio di Shelley. Va a Roma soprattutto perché la paga è piuttosto buona. Ha un lavoro da impiegato alla banca Nast, Kolb & Schumacher nel reparto corrispondenza straniera. Scrive I morti, ultimo racconto dei Dubliners. Ripensa spesso a Giordano Bruno. Vengono fuori i suoi interessi mistici e il rapporto complicato con la Chiesa cattolica, che ha abbandonato. Per Joyce la capitale italiana diventa “una città di fantasmi, di spettri del passato che tornavano a infestare un presente incerto e minacciavano ogni idea di futuro”. Ma è anche la città in cui nasce nella sua mente l’Ulysses. Fino a ora del periodo romano non si sapeva molto. Nelle voci enciclopediche non compare quasi mai. Quello che scopriamo nel libro Su tutti i vivi e i morti, di Enrico Terrinoni, appena uscito per Feltrinelli, proviene in parte dalle cartoline mandate al fratello. Gli scrive: “Roma piacerebbe più a te che a me”. 

E’ qui che Joyce si rende conto, quando è fuggito a Trieste dalla sua terra natia, di aver trattato l’Irlanda con troppa amarezza. Roma gli fa capire quanto fosse invece ospitale. Seduto un giorno di settembre a guardare i Fori si commuove, tanto da volersi sdraiare sulla panca di pietra, per poi scrivere: “Roma mi fa pensare a un uomo che si mantiene esibendo ai turisti il cadavere di sua nonna… A volte pensando all’Irlanda mi pare di esser stato più duro del necessario. Non ho reso giustizia alla sua bellezza”. Bastano sette mesi a Roma per rimpiangere casa propria. 

Quello di Terrinoni è più di un resoconto, più di una biografia, è una chiave d’accesso alla mente di Joyce, agli specchi che si riflettono tra opere e vita privata, e che accecano troppo spesso i lettori superficiali alla ricerca di aneddoti frivoli o affrettati parallelismi con il viaggio epico dell’eroe omerico. Si viaggia in continuo avanti e indietro, per creare dei fili che possano spiegare tutto. Esistono poche persone viventi che conoscono James Joyce come Terrinoni, che ha dedicato gran parte della sua vita allo scrittore irlandese, traducendo l’Ulisse e, insieme a Fabio Pedone, l’intraducibile Finnegans Wake, opera strutturata circolarmente, iper sperimentale con innumerevoli neologismi

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Bompiani ha appena pubblicato il volumone dell’Ulisse, testo a fronte con la sua traduzione, considerata la migliore. “Non dimentichiamo che un classico si evolve e che per ogni traduzione che conosce trova una nuova vita, sempre che da parte del traduttore venga usato il buon senso. I testi classici si rinnovano continuamente”, diceva Terrinoni in un’intervista. Si è occupato anche dell’introduzione, della biografia dell’autore e di quelle dei personaggi, delle corrispondenze omeriche e delle mappe del percorso di Leopold Bloom. 

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Nuccio Ordine, che cura la collana, ha intervistato sulla Lettura il presidente irlandese, Michael D. Higgins, poeta famoso anche per le incursioni del suo bovaro bernese durante le conferenze stampa. Così su internet girano foto del capo di stato con il volume Bompiani sottobraccio. L’occasione è data dai cento anni dall’uscita del libro, pubblicato da Sylvia Beach alla Shakespeare & Company di Parigi il 2 febbraio 1922. Una data come il 2.2.22, anniversario tondo, avrebbe fatto impazzire Joyce, attentissimo alla numerologia, tanto da aver scelto lui il giorno di uscita dell’Ulisse, essendo anche il suo compleanno.

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