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A teatro

Danzare con Dostoevskij. Così la letteratura diventa teatro e balletto

Marinella Guatterini

“L’Idiota”, ma pure “Anna Karenina”, Shakespeare e regine indimenticabili. I teatri italiani danno un'altra veste (danzante) ai grandi classici

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Nel balletto non ci sono né suocere, né nuore”. Cosa direbbe George Balanchine, il campione della danza astratta del secolo scorso, di fronte al guazzabuglio di intrighi, relazioni, malattie e morti che si accumulano nell’Idiota di Fëdor Dostoevskij diventato un balletto? E quale tipo di reazione potrebbe avere di fronte al trionfo di una Anna Karenina, da Lev Tolstoj, firmata da Anzelika Cholina, la stessa coreografa che ha allestito pure l’Idiota?

Presumibilmente scuoterebbe la testa, desolato, ma stupito. Anche perché se fosse vivo, lui che non creava un balletto senza partire da una musica ispiratrice e non da una “trama”, si imbatterebbe in un’ambigua nouvelle vogue che ora, d’improvviso, stringe balletto, danza moderna e di ricerca alla letteratura impegnata, e quasi sempre assieme a una musica regnante in primissimo piano.

Nell’Anna Karenina, vista al Teatro comunale di Vicenza, svetta il roboante clangore di Alfred Schnittke, scomparso compositore sovietico-tedesco dallo sguardo spiritato: per addolcire l’urto tellurico della sua musica che penetra nelle ossa e scombussola la psiche, la Cholina gli ha affiancato cenni da Mahler, Cajkovskij, Andrew Lloyd Webber: e chi non conosce Jesus Christ Super Star, tra i suoi tanti musical?

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Nell’Idiota, sarà perché quest’anno cadono i duecento anni dalla nascita di Dostoevskij, l’anima russa, o per meglio dire della dissoluzione sovietica, prevale. La pièce, per diciassette “danzattori”, ammirata al Teatro comunale di Modena, è dominata dal compositore georgiano Giya Kancheli, soprannominato “Vesuvio represso”, appellativo che non sbiadisce allorché, nel finale, il principe Myshkin, mistico “idiota” in un mondo di altolocate canaglie, muore per un attacco epilettico, la stessa malattia di cui soffriva l’autore dei Fratelli Karamazov. La Cholina gli sovrappone, ma come fosse una decalcomania, addirittura Beethoven. Tra l’altro la coreografa lituana, che abbiamo conosciuto solo grazie a questi due debutti italiani (mentre invece lavora dal 2000, anno della fondazione, a Vilnius, del suo A/CH Dance Theatre) è l’unica tra i fautori di questo riannodato abbraccio tra danza e letteratura a dichiarare di costruire tutte le sue produzioni a partire da una drammaturgia solo musicale. Disarmante paradosso balanchiniano. Il linguaggio coreografico della nostra Anželika – a breve impegnata nella Dama di picche da Aleksandr Puskin, per il Balletto del Bol’soj di Mosca – già su quei programmi di sala che Balanchine non voleva neppure si stampassero per non ostacolare la visione-ascolto delle sue coreografie, è quanto di più lontano si possa immaginare dal formalismo del fondatore, nel 1948, del New York City Ballet. Eppure c’è più di uno spiraglio di luce soprattutto nell’Idiota.

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Qui, infatti, per quanto la Cholina si affanni a elencare quasi tutti i personaggi del romanzo dostoevskiano, con nomi cognomi e patronimici, non si capisce nulla o ben poco, di ciò che accade. E’ una grande fortuna. Questa fuga dal pensiero o dal raziocinio, lascia spazio al mistero in cui ogni spettatore si può addentrare, al dominio dei corpi, alla forza delle immagini. Quasi tutti bellissimi, in abiti grigi e neri con svolazzi bianchi per le principesse in fiore, i bravi danzattori  dell’Idiota si agitano davanti a un fondale formato da caloriferi impilati. Idea semplice ma efficace: l’oscuro habitat somiglia a una lugubre biblioteca, alla gabbia di un carcere. Ci sono sedie, tavoli raggruppati, sui quali si canta, si balla, si dà battaglia, si applaude, si bisbiglia. Soprattutto ci si aggroviglia

Rapiti in camminate robotiche – a piedi scalzi, braccia alzate e poi ripiegate – in epilettici sussulti anche a terra, soprattutto in ondeggianti e verticali movimenti da zombie aggrappati a sedie, i corpi ricordano, assieme alla precarietà della vita, La classe morta, opera cardine dell’artista visivo e regista polacco Tadeusz Kantor. Ma guai a citare “i Santi” della scena del 900: la Cholina assicura di non sapere neppure chi sia Kantor; quanto ad Anna Karenina, di cui esistono un paio di illustri precedenti, lei non li conosce. Se non mente, sarebbe tutta farina del suo sacco, quanto meno poeticamente controverso: nell’ansia di essere aderentissima alla narrazione letteraria e comprensibile a tutti, lei schizza via – certo nei suoi furori gestuali più originali – verso l’esatto opposto. Così entra, a suo modo, nel Terzo millennio di ricerca.

In quest’area e dal 2007 soggiornano i Dewey Dell di Teodora, Agata e Demetrio Castellucci, tre dei sei figli di Romeo, regista di fama internazionale e Chiara Guidi, ricercatrice vocale. Per questi pargoli della Socìetas Raffaello Sanzio, pluripremiata compagnia dalla caparbia vocazione sperimentale, fondata a Cesena nel 1981, non deve essere stato facile distaccarsi da una simile dinastia famigliare, che tra l’altro li ha messi in scena sin da piccoli. Ma ci sono riusciti, anzitutto dandosi un nome chiaramente “letterario”, in netto contrasto almeno con l’iniziale iconoclastia antiletteraria e testuale della loro Maison. Dewey Dell è infatti un personaggio di Mentre morivo del Premio Nobel 1949 William Faulkner. Seguendo, nella danza, la cifra acre e ferrigna dello scrittore americano, i tre  Castellucci-figli si sono imposti anche all’estero per il coraggio di non occuparsi di problemi che assillano i giovani anche se loro stessi lo sono, preferendo gettarsi nell’impresa di creare un proprio universo scenico.

Ed ecco spettacoli dedicati ad animali, venti, mesi, alla scoperta di caverne con graffiti di 3.600 anni or sono per un dialogo con gli antenati, e  una serie di Live Concerts, guidati da Demetrio, il musicista del gruppo nel frattempo allargatosi a una bella schiera di collaboratori. Infine adesso, e per la prima volta, il confronto con un testo: Amleto. Di nuovo Shakespeare, ma aggredito a sorpresa. Infatti, nonostante anni di distacco anche fisico da Cesena e dalla famiglia (il gruppo ha sede pure a Berlino), l’Hamlet dei Dewey Dell, già in scena alla Triennale Teatro di Milano e ora in tournée, coglie al balzo i tormenti e l’inanità di Amleto per ribadire proprio la difficoltà di essere figli, di essere nati da genitori che non si sono scelti, e di costruire la propria individualità. L’iniziale e magnifica “danza del no” di un Amleto attorno a un corpo immobile, statuario (il fantasma del padre che vuole vendetta), completamente ricoperto di una pasta gialla che ne camuffa ogni sembianza, è ossessionata e dolente, tutta vibrazioni del corpo e scossoni del capo ripetuti all’infinito. Un gesto del braccio proteso verso il pubblico materializza il diniego all’azione e l’abbraccio al corpo statuario rivela con dolcezza la necessità dell’attesa.

Davanti a un maestoso fondale di ferro brunito e sbalzato che si intravvede dietro a tendaggi cremisi, la pièce procede con una danza di due corpi in nero con braccia come lunghe chele: muovendosi intrappolano Amleto, ma lui scappa dallo sgabello-trono. Due maschere coloratissime rimandano allo spettacolo nello spettacolo presente in Shakespeare (La morte di Gonzalo) e qui sono un sinuoso gatto peloso e un buffone capace di abili acrobazie. Quando le enormi ali di una falena strisciante a terra giunge al fondale e vi si getta contro, tutto cambia. Ofelia, la falena, si è uccisa e il fondale si accende di lucine intermittenti.

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E’ il momento di scivolare in quei riti di possessione che liberano da ogni confuso abisso della psiche. Compare una donna in body nero, dal volto ricoperto di tintinnanti campanellini: le sue braccia nude muovono con furore due coltelli; ai piedi ha una stoffa che diviene un sacco mobile e tormentato. Se lei è Gertrude, la mamma e il sacco il figlio Amleto, il rito è compiuto. Il principe di Danimarca non c’è più, sbattuto fuori di scena, è solo un contenitore di carne. Restano e si svelano come uomo e donna i due ex buffoni. Padre e madre? Chissà? Quel che è certo è che su tutta la successione delle raffinatissime immagini la musica di Demetrio Castellucci supera se stessa; acchiappa la potenza di Schnittke – sì ancora lui, in onore ad una tragedia classica – e vi aggiunge stridori, rotolare di pietre, graffi, ronzii, in un bruitismo che accoglie lacerti in inglese del testo di Shakespeare che pizzicano da lontano.

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Nella nascita della tragedia, il filosofo Nietzsche aveva dato una sua lettura di Amleto paragonandolo all’uomo dionisiaco nauseato di fronte all’agire. Virtualmente lo ritroviamo a Parigi. Nel capitolo dedicato al “Caso Wagner” di Ecce Homo, il filosofo elogia Stendhal “per essere l’uomo che di tutti i francesi del suo secolo ha potuto essere quello dagli occhi e dalle orecchie più ricche di pensiero”. Con questo autorevole lasciapassare, il “tout Paris” ha riservato a Le Rouge et le Noir, un trionfo epocale. Va bene che Marie-Henri Beyle, noto con lo pseudonimo di Stendhal, è tuttora considerato il più moderno scrittore francese della sua epoca, ma chi avrebbe detto che proprio al termine della sua carriera l’ottantanovenne coreografo Pierre Lacotte si sarebbe pure lui gettato in questa nouvelle vogue che stringe balletto, nel suo caso accademico, a letteratura impegnata?

Noto nel mondo come abile ricostruttore di capolavori romantici anche perduti, come La Sylphide di Filippo Taglioni del 1832, Lacotte asserisce di aver coronato il sogno giovanile di mettere in scena il romanzo a lui più caro e nel teatro, il Palais Garnier dell’Opéra National de Paris, in cui tutte le sue aspirazioni di danzatore e coreografo si sono avverate. Così ha tagliato e cucito in tre atti un balletto ambientato nella Francia post-napoleonica e reazionaria, in cui ipocrisia e cinismo si insinuano corrompendo i rapporti umani. Vi si assiste all’ascesa e caduta dell’affascinante proletario Julien Sorel, portato per le lettere e la teologia, ma soprattutto desideroso di entrare nel bel mondo e di ottenere fama e denari. Due donne (la maritata Madame de Rȇnal e la nubile Mathilde de la Mole che gli avrebbe consentito un matrimonio da marchese e una cospicua dote) frenano la sua bramosia di potere. Lettere anonime e il tentativo di uccidere la De Rȇnal non solo lo discreditano, ma lo portano alla forca. Fine di un fervente fan di Napoleone, cui le donne fecero del male, così come infierirono sul donnaiolo Stendhal? Lacotte non gli torce un capello. I personaggi maggiori del romanzo ci sono tutti: su musica varia di Jules Massenet, questa volta solo supporto ai numerosi e squisiti passi a due, agli insiemi, ai virtuosistici assolo. Il coreografo ha anche creato scene e costumi per lo più in bianco e nero con tocchi di rosso, consoni al romanzo del 1830. Se non si conoscesse la trama del Rosso e il Nero si dovrebbe ricorrere al bigino di sala e l’anatema di Balanchine tornerebbe in auge. Invece, alla ripresa del balletto, sarà possibile ammirare la sola composizione coreografica e lo spessore di una danza d’autore, senza preoccuparsi troppo del linguaggio psicologico di Stendhal, realisticamente critico e tratto da un fatto di cronaca vera.

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Ormai nel 2021 quel “nel balletto non esistono né suocere, né nuore” ha perso la sua forza d’urto e non prevarrà neppure in Marie Antoinette  di Thierry Malandain. Il direttore del Ballet Biarritz porterà dal 26 gennaio 2022, al Teatro La Fenice, e in prima rappresentazione assoluta, la storia, condensata nel breve lasso di tempo di una sera all’altra, della quattordicenne consorte di Luigi XVI, morta con dignità sulla ghigliottina durante la Rivoluzione francese. Tra i documenti storici analizzati da Malandain, spicca il bel ritratto “Maria Antonietta: Una vita involontariamente eroica”  scritto nel 1932 da Stefan Zweig e considerato un modello del genere biografico. Lo scrittore austriaco non salva Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena dalle sue frivolezze, dalle amicizie pericolose, dall’ostinata protezione del suo paese nativo, dall’adulterio che compare nel film pop del 2006 di Sophie Coppola. Tuttavia, districandosi nel tortuoso cammino della sua vita, tra l’altro di madre affettuosa, Zweig rintraccia i tratti di una donna senza particolari qualità, costretta a vivere con un consorte che non amava e al centro di una storia che non aveva scelto, eppure segnando nel sangue la fine di un’epoca.

Infilata la sua danza tra le Sinfonie di Haydn e l’Orfeo ed Euridice di Gluck, e vestiti i ballerini nei moderni e variopinti costumi di Jorge Gallardo, anche autore delle scenografie, chissà se il coreografo Malandain movimenterà la frase che ha reso nota quella regina: “Se non hanno più pane, che mangino brioche”, riferita al popolo affamato e in subbuglio. Gli storici scuotono la testa; Zweig deride quella che considera una leggenda. Staremo a vedere sino a che punto l’abbraccio tra danza e letteratura può trasfigurare il falso nel vero.

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