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Francesco Forte, il vecchio argentato che divorava l'esistenza

Giuliano Ferrara

In ricordo del venerato e amabile Professore che si travestiva da pasticcione, da dandy e da viveur, che approfondiva il sapere da Nobel con la stessa agiatezza rotonda e riflessiva con cui divorava il pettegolezzo e la battaglia

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Di un accademico di quel rango, l’erede in cattedra di Scienza delle finanze del grande Luigi Einaudi (per la di lui volontà), non diresti mai: ecco il professor Francesco Forte. Mai, considerato il suo eccesso di disordine, il suo spirito ultrasorridente e la sua mimica da genio tra le nuvole e da gran beone estatico e da gran donnaiolo sempre innamorato, come in perpetuo seminario; mai, considerato il suo dispetto ghibellino, come avesse la scienza in gran dispitto, lui che la praticava all’ingrosso e al dettaglio in un italiano limpido e erratico, che faceva drizzare i capelli a fare editing; mai, viste le sue scelte di vita politica, sempre a fianco di outsider del socialismo riformista e liberale, e chissenefrega del rigore appuntito come uno stuzzicadenti, Forte approfondiva il sapere da Nobel con la stessa agiatezza rotonda e riflessiva con cui divorava il pettegolezzo e la battaglia, inviava da ministro combattente ispettori cazzuti nel tempio di Eugenio Scalfari, provocava, smentiva, si contraddiceva come tutti gli uomini liberi e di passione grande e faziosa. Mai diresti che il Forte pavese, torinese, romano era un prof. italiano nella media dei colleghi, li superava di una spanna o forse due, tre spanne, e divorava l’esistenza da giovane e da vecchio argentato, sognando di entrambe queste età.

       

Si dedicò al Foglio per vent’anni, ma erano in pochi a saperlo perché la sua specialità era il secondo editoriale di terza pagina, non firmato, che per i redattori era sempre il pennacchio più alto del giornalismo possibile, intriso di politicità, letteratura, sapienza vera di economia e società, senso della scoperta e esposizione all’errore felice. Felice come la sua bella vita chiusa a novantadue anni, impreziosita da pagine autobiografiche in cui tirava freccette da ragazzo non se la tirava da cresciutello, da un suono di squilla di lontano, dalla Torino composta e giansenista, che da ora ricorda il giorno che ha detto ai dolci amici addio. Aveva un senso dell’amicizia come pochi, era sospettoso e altero, ma confidente e compagnone, arrivava trafelato in redazione, a Milano o poi a Roma; era sempre un avvenimento, anche quando si ripeteva tutti i giorni, e il venerato e amabile Professore veniva fatto sedere dovunque una postazione gli potesse offrire, come a uno stagista o a un superdirettore, l’occasione di scrivere in fretta e furia, con cura che scansava la molestia della pignoleria, il suo pezzo che orientava, incuriosiva, titillava, colpiva dritto l’immaginazione politica della navicella su cui si era imbarcato, questo vecchio craxiano di ferro, riformista e liberale che amava il Barolo ma non era al Barolo.

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Aveva la strafottenza e l’elegante sciatteria di un principe bostoniano, idealmente portava il papillon, ma non era della casta o anche solo dell’élite; frequentava ministeri, sottosegretariati, stanze di partito, piazze milanesi e romane, ristoranti, osterie, luoghi marini come la sua Rapallo, da dove per decenni ci raccontava al telefono lo sforzo immane di costruirsi un ascensore in villa che divenne leggendaria parabola sulla burocrazia amministrativa
      

Insegnava come un altro apprende, con totale spontaneità e duro tirocinio, senza bisogno di encomio, solo di calore e di attenzione critica. Questo grande maestro si travestiva da pasticcione, da dandy e da viveur, si muoveva come una marionetta tra cose varie di scienza, di vita e di politica, e una sera, allo stesso celebre tavolo del ristorante Fortunato al Pantheon dove sedevano uno Jannuzzi o una contessina Ariosto, godemmo come porcelli della sua conversazione sempre fitta e divertente, sempre istruttiva e logica, finché, lui che era l’essere umano più capace al mondo di reggere l’urto di infinite bottiglie di vino rosso, diede un segno vago di stanchezza e batté d’improvviso la fronte sul tavolo, proprio con un bum!, restando immobile, piegato sulla fronte, per almeno un minuto con la sua bella testa setosa, così, come corpo morto cade, pieno delle emozioni di una serata, senza farsi male, pronto a rialzare il capo e a continuare a discorrere. Ripartendo dal punto dove aveva lasciato.

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