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Le macchine della Repubblica/3

Gli anni Settanta tra le auto dei delitti e la crisi petrolifera

Marco Tullio Giordana

L’Alfa 2000 Gtv di Pasolini, la 130 di Moro, la “sconcia stiva” delle Br. Ecco gli anni Settanta, buoni solo per la musica e l’arte. Il crollo dell'oro nero mette la macchina in castigo, però nasce la stella Giugiaro

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Quello che potete leggere di seguito è il terzo episodio del viaggio a puntate sulle auto che hanno fatto la storia della nostra Repubblica a cura del regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana per il nostro giornale. Potete trovare la seconda puntata qui


 

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Nessuno li ama questi anni Settanta, sentina di tutti i vizi, fucina di tutti i mali. Il decennio della droga, delle manifestazioni con scontri e tutto, dei rapimenti, dei passamontagna, delle rapine, delle Alfette blindate, dei terroristi che dopo le prime azioni dimostrative cominciano a sparare per davvero. è questo il ritratto, anzi l’autoritratto (perché molti si daranno poi alle belles lettres), della generazione in rampa per essere la ruling class degli Ottanta e che si dimostrerà molto più spregiudicata dei genitori. Impossibile avere nostalgia di quegli anni, formidabili sì e no. Vedo anche che quasi tutti gli amici che avevano al centro delle proprie passioni la politica li ricordano con imbarazzo. 
Per gli artisti invece fu diverso.


In ogni metropoli o cittadina, per ogni dove in Italia e nel mondo, si moltiplicarono iniziative culturali oggi impensabili; si aprirono spazi non convenzionali per fare musica, teatro, proiezioni di film, mostre di quadri o installazioni in bulimica sovrabbondanza. Certo non tutto sarà stato eccelso (è di quel periodo la perdita del sense of humour sostituito dello sbeffeggio aggressivo) ma è vero che mondi distanti interagissero tra loro e si aprissero alla curiosità. Mi ero appena trasferito a Roma e mi sembrava di toccare il cielo con un dito per tutto quel disordine creativo, anche se il momento magico – come mi ripetevano i più “grandi” e smaliziati – era già passato. Di quei giorni non rimpiango certo i ragazzi sovraeccitati che si scagliavano contro celerini altrettanto sovreccitati, ma quelle decinaia di cineclub e cantine che inscenavano gli spettacoli delle avanguardie, i locali affumicati dove ho potuto ascoltare Chet Baker e Steve Lacy, esperienze formative quanto le letture dell’adolescenza. Senza contare le occasioni “istituzionali” come Eliseo, Argentina, Valle, Teatro dell’Opera, Filarmonica romana o quelle dichiaratamente “alternative” (ma il termine era già decaduto) di Castelporziano e i suoi poeti. Nessuno tocchi quell’offerta generosa, nessuno la derida; era lì a portata di mano, bastava raccoglierla invece che allenarsi al tirassegno.

 


Chet Baker (Yale, 23 dicembre 1929 – Amsterdam, 13 maggio 1988)

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Gli anni Settanta, se pure offrono gli spettacoli di Bob Wilson e Meredith Monk, non sono buoni per l’automobile. Intanto la crisi petrolifera e i costi che va a innescare. Non solo devono consumare poco ma devono anche sgusciare via inosservate, non dare nell’occhio. La plastica sostituisce legni e metalli, le forme si semplificano per rendere più agevole l’economia di scala e fare a meno di una manodopera ormai svogliata e rognosa. Anche i nostri grandi carrozzieri devono subire richieste mortificanti di linee squadrate e prive di colpi d’ala. Fortuna che ci sono coreani, giapponesi e tedeschi a chiedere progetti, altrimenti si vedrebbero in giro solo scatole di sardine.

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Declinano i Grandi Vecchi, largo ai giovani. Uno per tutti: Giorgetto Giugiaro. E’ stato a bottega da Nuccio Bertone, uno dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse (gli altri erano: Giovanni Battista Pininfarina, Elio Zagato e Felice Bianchi Anderloni della Touring. Io aggiungerei un Quinto: Alfredo Vignale). Da ventunenne garzone di belle speranze Giugiaro mette mano nel 1959 al restyling di un capolavoro: la Giulietta sprint disegnata nel 1954 da Ivo Colucci e Giuseppe Scarnati dell’Alfa Romeo (ci mise mano anche Mario Boano della Ghia) e con pochi ritocchi, concentrati sulla mascherina frontale trilobata (ora sembra una fanciulla che ride!) e sulla fanaleria posteriore, la rimette in forma perché faccia sognare un’altra generazione, finché non è sostituita nel 1963 da un altro capolavoro tutto disegnato stavolta interamente da Giugiaro: la Giulia Sprint Gt, macchina che avrà molte successive reincarnazioni fino alla 2000 Gtv di cui parleremo tra poco. Giugiaro ha lavorato da Ghia, realizzando le stupende De Tomaso Mangusta, Maserati Ghibli, Iso Rivolta Fidia. Nel 1969 il disegnatore piemontese s’è messo in proprio, assieme al socio Aldo Mantovani. Bel rischio per un ventinovenne, anche se subito arrivano importanti commesse, perché Giugiaro, oltre a disegnare le auto, sa come progettarne l’industrializzazione. Quando Volkswagen, Gruppo Fiat (che nel frattempo ha assorbito la Lancia), Alfa Romeo e Hyundai bussano alla sua porta, Giugiaro potrà finalmente disegnare modelli che faranno epoca: Alfasud (1972) e Alfetta (1974) per l’Alfa Romeo, Scirocco e Golf per il gruppo tedesco (1974), Pony (1975) per i coreani, Delta (1979) per la Fiat, in attesa degli anni Ottanta che segneranno la sua definitiva affermazione.

 

Sono molte le autovetture che caratterizzano il decennio, ma quattro per me si mischiano alla Storia dell’Italia. Quella più controversa, quella che toccherà scrivere e riscrivere perché nulla è così come apparso ai contemporanei e solo il tempo riuscirà a farne la radiografia. La prima è l’Alfa Romeo 2000 Gtv (Gran turismo veloce). Non perché sia un modello così speciale, ma speciale è quella targata Roma K69996, la macchina appartenuta a Pasolini. La sua morte è abbastanza nota, tutti sanno com’è andata.  Più o meno. In quel più o meno si racchiudono alla fine due possibilità. La prima: fu il ragazzetto Pelosi ad ammazzarlo, riempiendolo di botte e passandoci poi sopra con la Gtv. Era la versione degli investigatori e fece scuola su giornali e televisione perché coerente con la bulimia della sua vita (omo)sessuale. Seconda: Pelosi non era solo, ce n’erano almeno altri due, forse tre aggressori. E qui s’irradiano altre possibilità: chi erano questi due o tre? Ragazzi di vita? Balordi? Una rapina andata a male? C’è anche la suggestiva teoria di un’esecuzione politica, dato che Pasolini stava sulle croste un po’ a tutti, con quelle bacchettate a destra e manca, mai contento, malmostoso, perfino irriconoscente verso l’Italia e la società letteraria che l’aveva innalzato a Vate supremo. Ma chi esattamente lo voleva morto? I fasci – che in quel periodo ne combinavano di tutte? Magari con la zampa dei servizi segreti, eccetera, eccetera? Tanti anni fa realizzai un film proprio sull’omicidio di Pasolini illustrando tutte queste teorie. A dir la verità tutti i suoi amici erano convinti che fosse stato ammazzato da un gruppo di delinquenti (Pelosi non ce l’avrebbe mai fatta a sopraffarlo) e soltanto Laura Betti insisteva con contagiosa convinzione sulla tesi dell’omicidio politico. Tuttavia anche la Procura generale qualche dubbio l’aveva per opposte intenzioni; la Betti voleva sapere la verità, la Procura insabbiarla. Tanto che impugnò subito la sentenza che condannava Pelosi “insieme a ignoti” avocando le indagini e chiudendole senza costrutto, forse davvero preoccupata di scoprire qualche commando esuberante. Come sia andata veramente sarebbe importante saperlo più per l’Italia che per Pasolini, dato che la sua grandezza non fu minimizzata dalle circostanze della sua morte, che anzi ne accrebbe il mito. A meno che oggi, nella generale rilettura che tutto deve correggere, risarcire, cancellare, non venga invece voglia di processare proprio lui, brutto frocio pedophile, e magari linciarlo per le scorribande notturne con la Gtv a rimorchiare la pezzente gioventù anziché starsene a casa a scrivere poesie.


Al tempo del film (erano passati vent’anni dall’omicidio) cercai di ritrovare la macchina di Pasolini. Mi dissero che era stata demolita. Da poco ho scoperto che invece esiste ancora. E’ stata restaurata e la possiede ora una collezionista cui evidentemente non deve fare troppa impressione guidare l’arma di un delitto.

 

La breve carrellata sulle macchine della Repubblica si conclude con la data del ritrovamento di Aldo Moro in via Caetani, schiacciato come un sacco d’immondizia nella “sconcia stiva” – come scrisse Mario Luzi, sono sempre i poeti a fornire l’esatta descrizione! – di una Renault rossa, auto non italiana ma abbastanza diffusa anche da noi per le sue innegabili doti utilitarie. Era il 9 maggio del 1978, ma la brutta storia era cominciata 55 giorni prima.

 


Roma, 16 marzo1978, via Mario Fani



Sull’intera vicenda del sequestro Moro (con annesso annientamento della scorta così composta: maresciallo CC Oreste Leonardi, appuntato CC Domenico Ricci, vicebrigadiere PS Francesco Zizzi, guardia PS Giulio Rivera, guardia PS Raffaele Iozzino), le modalità, le responsabilità, i basisti, i covi, la presenza o meno di elementi estranei, aiuti, suggeritori, manine di questo o quell’apparato di sicurezza etc. si è aspramente discusso per anni in sede processuale, parlamentare, giornalistica, pubblicistica, e ancora si discuterà a lungo dato che alla fine ha prevalso una versione – diciamo pure “di comodo” – in cui tutti salvano la faccia e si consegnano all’ammirazione dei rispettivi devoti. Autorità, istituzioni e forze dell’ordine per aver fatto del loro meglio allo scopo di salvare Moro, pur avendo clamorosamente fallito. I brigatisti perché incontaminati progettisti ed esecutori di un piano autoctono (anatema dunque contro chiunque li sospetti di esser stati strumentalizzati). La Chiesa perché pregò e raccolse i soldi di un eventuale riscatto. Socialisti e radicali perché cercarono i margini di una trattativa. Comunisti, democristiani, liberali, repubblicani – il fronte della “fermezza” – per aver salvato la Patria, sia pur sacrificandone l’agnello pregiato, l’informazione perché tenne desta l’opinione pubblica (e quanto più intransigente tante più copie vendute). 


Allora non ero che un ragazzo, scosso e senza guida, tutto mi faceva orrore. Le lettere di Moro non mi sembravano affatto sotto dettatura, trovavo disgustosa la filologia adoperata per sminuirle. Nessuno mi sembrava credibile, tranne Leonardo Sciascia che – come tutti gli artisti – trasmetteva l’illusione di poterne venire a capo con la sola intelligenza e, a distanza di anni, le sue pagine continuano a sembrarmi le più verosimili e illuminate. Comunque si era rotto un patto, il commitment su cui si regge la convivenza, il rispetto delle differenze, la pietà verso i vinti e – aggiungo – verso i vincitori. Dunque le immagini dell’Alfetta targata Roma S93393 e della Fiat 130 blu targata Roma L59812 – crivellate di colpi che risultarono micidiali perché non erano blindate – si sovrapponevano nella mia testa alle tavole della Legge, le cancellavano. L’agonia della Repubblica per me cominciava lì.

 

Se un’auto potesse parlare! L’abbondante letteratura su via Fani è superata solo da quella dedicata a via Caetani: sull’orario in cui la sua presenza cominciò a destare sospetti non esistono testimonianze univoche e c’è da rompersi la testa a leggere le migliaia di pagine delle varie commissioni Moro. La pubblicistica sul caso Moro è così sterminata che da sola occupa in casa mia due enormi librerie, così cariche che devo ormai disporre i libri sdraiati. Due di questi, Morte di un presidente e L’ultima notte di Moro, entrambi di Paolo Cucchiarelli, scrittore che i grulli dileggiano come “complottista” senza averlo letto, si sono presi la briga d’interrogare l’ultima auto di cui parleremo, la Renault rossa targata Roma N57686. La sconcia stiva.

 


Roma, 9 maggio 1978, ore 13:30. Gli artificieri tentano di aprire lo sportello posteriore della Renault R4


 

La targa è fasulla (proviene in realtà da un’Alfetta dell’Alitalia), l’auto è stata rubata all’imprenditore edile Filippo Bartoli che poté rientrarne in possesso nel 1980 ricoverandola sotto una tettoia di casa fino al 2013, anno in cui decise di donarla all’Autocentro della Polizia di Stato di Roma dov’è tuttora.


Cucchiarelli, assistito dal medico legale Alberto Belloco e dal perito balistico Gianluca Bordin, esamina tutto l’esaminabile: la relazione autoptica sul corpo di Moro, le immagini rilevate, le perizie agli atti dei numerosi processi, gli allegati delle altrettanto numerose commissioni parlamentari, e giunge alla sconvolgente conclusione che Moro non fu ucciso nel bagagliaio della Renault in via Montalcini, come si è sempre detto, bensì all’interno dell’auto, mentre stava seduto sul sedile posteriore, ottimisticamente convinto che di lì a poco il Calvario sarebbe terminato. Per chi volesse saperne di più rimando alla lettura di questi volumi così dettagliati, ignorando le scomuniche scagliate contro questo scrittore troppo irregolare e “cane sciolto” per essere accolto nella tribù.

 

Dire che queste tre auto concludono l’avventura sia della Repubblica che dell’Automobile è un paradosso che vale solo per me, non pretendo certo che venga adottato nei libri di testo. La verità è che da allora ho cominciato a disinteressarmi di entrambe, e non sono più riuscito a guardare un politico senza dubitarne, né appassionarmi alle macchine che mi appaiono tutte uguali, cloni l’una dell’altra. Magari cambierà, non dispero di innamorarmi di nuovo. La vita riserva continue sorprese.

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