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S come spocchia

Scurati vende “M” a Netflix e poi si vergogna

Andrea Minuz

Il caso provocato dalle parole dello scrittore sull'adattamento del suo romanzo per il piccolo schermo è un piccolo, ma formidabile compendio della nostra incapacità di progettare i prodotti culturali o di accettare l’idea che si progettino

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Pare quindi che “M”, saga editoriale antifascista e necessaria, diventerà anche una serie Netflix. Forse un franchise. Come “Il Signore degli anelli”, “Batman”, “Star Wars”: libro, serie, poi magari film a Venezia, videogioco per Playstation e tutto un merchandising intorno (le t-shirt con la monumentale “M” in carattere littorio, quella che campeggiava sulla copertina del libro, andrebbero di certo a ruba, altro che il vestito di Ocasio-Cortez al Met Gala).

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Pare quindi che “M”, saga editoriale antifascista e necessaria, diventerà anche una serie Netflix. Forse un franchise. Come “Il Signore degli anelli”, “Batman”, “Star Wars”: libro, serie, poi magari film a Venezia, videogioco per Playstation e tutto un merchandising intorno (le t-shirt con la monumentale “M” in carattere littorio, quella che campeggiava sulla copertina del libro, andrebbero di certo a ruba, altro che il vestito di Ocasio-Cortez al Met Gala).

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Sembra una cosa bella. Ma Scurati è turbato. Si sta già pentendo. Al Festival della letteratura di Mantova non riesce neanche a chiamarli col loro nome. Dice, “sto lavorando alla trasposizione dei miei libri con un grande broadcaster che non nominerò”. Ed è subito, “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”, indimenticabile, fortunata perifrasi veltroniana coniata per elezioni del 2008, vinte come si ricorderà dal Cav. Cos’è che turba Scurati? Perché “dice e non dice ma fa capire più di quel che dice” (come spiega il Corriere)? Anzitutto, lo turbano le obiezioni sulla storia. Pare incredibile, ma in questo “grande broadcaster che non nominerà” c’è gente pagata per prendere i libri, smontarli, modificarli dove serve, poi rimontarli a forma di script adatto a una serie tv, col solo scopo di farla piacere al pubblico. Evidentemente metterci su la scritta “una storia antifascista tratta da un Premio Strega” non basta. Ma c’è di peggio. “La divisione editoriale vorrebbe dei buoni all’inizio e una storia d’amore” (Scurati dice “divisione editoriale” come evocando una fabbrica dove si conducono esperimenti segreti). “Vorrebbero cambiare l’ordine del racconto. Ma come si fa? Io ho fatto un libro sui fascisti, assumendo il loro punto di vista, e la scommessa è proprio questa. Sono tutti cattivi nel libro e non può essere diversamente”. Scurati vuole solo fascisti cattivissimi. Peggio di quelli di Bertolucci in “Novecento”, già spietati, perfidi, sanguinari. Ma Scurati vuole i cattivi della Marvel. Senza la storia d’amore in mezzo.

C’è poi un altro problema di sensibilità multiculturale. Il problema del “giapponese” di Scurati, cioè il “samurai-ardito di Fiume, che D’Annunzio spedì a Milano per convincere Mussolini a intervenire”. E qui Scurati, oltre a indignarsi alla sola ipotesi di doverlo togliere o rimaneggiare, scopre l’esistenza degli uffici legali. “Questo grande broadcaster che non nomino pare che a New York abbia un ufficio in mogano con dentro un avvocato, che si chiama Ufficio materie sensibili”. Scurati non lo sa. Evidentemente quelli di Netflix non sanno come dirglielo. Ma l’autore di un romanzo è la persona meno adatta per trasformare il suo libro in film o serie (una regola d’oro valida da sempre a Hollywood). Prima si leva di torno, meglio è per la storia. Del resto, le sceneggiature migliori si scrivono con l’avvocato accanto (come nella gag di Gigi Proietti, quella della querela, avete capito quale).

C’è in queste esternazioni di Scurati alle prese col mondo nuovo di Netflix un piccolo, formidabile compendio della nostra incapacità di progettare i prodotti culturali o di accettare l’idea che si progettino. C’è il rifiuto di una mentalità industriale in fatto di film o libri. C’è la spocchia dell’autore che “guai a tagliare una pagina del mio romanzo”. C’è la presunzione di potersene infischiare del pubblico, degli investimenti ingenti, della filiera di persone che dovranno lavorarci dietro, delle regole di fondo della narrativa, valide da Omero a Netflix. C’è poi l’idea che l’antifascismo funzioni come una religione, di cui Scurati è l’ultimo custode sacerdotale. Può una religione essere ricondotta a logiche di mercato? Suvvia. Però, fortunatamente, alla fine si tira tutti un sospiro di sollievo. Lo scrittore accetterà di collaborare con il “grande broadcaster”. Lo farà per “impedire che il pubblico magari empatizzi con la figura di Mussolini. Vigilerà lui. Ora che sta scoprendo tutti i segreti dell’industria culturale. 

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