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Il selfie con i libri dello scrittore morto è una passione da becchini narcisisti

Marco Archetti

Cornici per il proprio volto, da Calasso a Del Giudice, gli scrittori e gli editori che se ne vanno diventano strumenti per il culto di sé sui social

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Si discute di obbligo vaccinale e intanto sui social, veri avamposti normativi, regna incontrastato un obbligo rituale: quello di reggere lo specchio delle proprie brame mentre si finge di partecipare al lutto di uno scrittore, di un editore, di un intellettuale, insomma di chiunque possa offrire l’opportunità all’autodichiaratosi Orbato di frapporsi tra il feretro e il buongusto. Che il culto di se stessi fosse l’epicentro di ogni attività social, compresa quella di ignorarne il ridicolo, è risaputo. Che l’ossessione assertiva riesca a impossessarsi di tuittaroli di ogni ordine e grado, anche. Ma che sia pratica ormai accettata scattarsi selfie a ripetizione con l’unico obiettivo di ritoccare continuamente il proprio autoritratto (cioè l’unico ritratto che consentiamo) senza rispettare nemmeno i defunti, è fenomeno che non dovrebbe soggiacere all’immunità di gregge. E invece pare che getti nello sconforto solo noialtri, orrendamente anziani, anchilosati certificati, novecenteschi ammuffiti e tediosi oltre ogni dire (stavo per scrivere “tediosi a morte”, ma mi ha assalito il timore che, usmando l’opportunità funebre ancorché figurata, mi si potesse avventare addosso un Chiunque in possesso della forza narcisistica necessaria a sloggiarmi dalla tastiera). Insomma, si può essere Becchini Narcisisti? Era il mestiere meno amato del mondo fino a qualche tempo fa, ora si può e si deve, tanto che è l’attività più praticata sui social. 

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Si discute di obbligo vaccinale e intanto sui social, veri avamposti normativi, regna incontrastato un obbligo rituale: quello di reggere lo specchio delle proprie brame mentre si finge di partecipare al lutto di uno scrittore, di un editore, di un intellettuale, insomma di chiunque possa offrire l’opportunità all’autodichiaratosi Orbato di frapporsi tra il feretro e il buongusto. Che il culto di se stessi fosse l’epicentro di ogni attività social, compresa quella di ignorarne il ridicolo, è risaputo. Che l’ossessione assertiva riesca a impossessarsi di tuittaroli di ogni ordine e grado, anche. Ma che sia pratica ormai accettata scattarsi selfie a ripetizione con l’unico obiettivo di ritoccare continuamente il proprio autoritratto (cioè l’unico ritratto che consentiamo) senza rispettare nemmeno i defunti, è fenomeno che non dovrebbe soggiacere all’immunità di gregge. E invece pare che getti nello sconforto solo noialtri, orrendamente anziani, anchilosati certificati, novecenteschi ammuffiti e tediosi oltre ogni dire (stavo per scrivere “tediosi a morte”, ma mi ha assalito il timore che, usmando l’opportunità funebre ancorché figurata, mi si potesse avventare addosso un Chiunque in possesso della forza narcisistica necessaria a sloggiarmi dalla tastiera). Insomma, si può essere Becchini Narcisisti? Era il mestiere meno amato del mondo fino a qualche tempo fa, ora si può e si deve, tanto che è l’attività più praticata sui social. 

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Ovvio chiarimento: non si intende certo condannare qualche riga d’affetto che ricordi qualcuno che per noi ha avuto un significato (chi ama uno scrittore sa bene cosa si intende), ma assistere alla sostituzione del defunto con l’ego di chi lo piange dovrebbe essere, senza mezzi termini, pratica addirittura innominabile. Il 2 settembre è morto Daniele Del Giudice. Uno scrittore vero, un uomo pieno di pudore, di sensibilità. Il più bel ritratto, proprio su Twitter, l’ha scritto Fulvio Abbate, uno che a narcisismo non sta indietro (senza tuttavia raggiungere il signore delle cime Tomaso Montanari, avendo sempre il buonsenso di non agghindare il proprio ego coi segnacoli della Battaglia Culturale), ed ecco la sua breve, bellissima poesia: “Ciao Daniele, scrittore, aviatore, creatura gentile, viso da ragazzo, profilo da cavalluccio marino”. Non è vietato esprimere l’amore in pubblico, e nemmeno il dolore. Ma c’è chi non ci riesce, c’è chi non vuole, e soprattutto c’è chi, in questa estetica della ciancia permanente, rischia di essere considerato uno stronzo, uno che non c’era a nessun funerale, uno che potrebbe sentirsi, probabilmente, perfino un po’ in difetto. Ma rispetto a chi? A cosa? 

Il giorno della morte di Del Giudice è scattata la competizione a fotografare i suoi libri sugli scaffali di casa, e chi non era in casa l’ha fatto appena possibile. Forse, questa distorsione dell’idea di partecipazione – in realtà stai partecipando a te stesso, stai rimpolpando una reputazione – è la più impietosa fotografia (ma dovrei dire “pic”) della situazione: una cornice vuota che attende sempre e solo il nostro volto. Scorrendo i social nei giorni della morte di Roberto Calasso, insieme a manifestazioni di dolore legittime – chi ha parlato della fine di un’epoca ha detto bene, chi lo conosceva davvero ne ha raccontato con intelligenza e misura – era inevitabile incappare qua e là in autopromozioni desolanti o in tentativi tragicamente goffi di vincere la gara a chi aveva più Adelphi in casa (incolpevole la spiccata fotogenia dei libroni). Tutti selfie camuffati e autocertificazioni di straordinaria sensibilità e indefesso amore per la cultura, affisse ai muri mentre si canta strazio civettuolo di funerale in funerale. 

 

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Approfittare della morte di uno scrittore per accreditarsi: strillare il proprio dolore ai quattro venti non basta più, è ormai d’obbligo che l’illustre cadavere sia baciato dal riflesso del proprio narcisismo. Ma peggio dell’applauso a un funerale c’è solo applaudire se stessi al funerale di un altro.
 

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