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La storia mancata di Ettore Barzini, “il fratello minore” morto a Mauthausen

Cristina Marconi

Il nipote Andrea ricostruisce il grande mistero. Un libro

C’è un “buco” – un vuoto, ma anche, come dicono i reporter, una storia mancata – al centro della famiglia Barzini, Royal family del giornalismo italiano: Ettore, secondogenito di Barzini senior e fratello minore di Luigi junior detto Gibò, è morto nel campo di concentramento di Mauthausen il 13 aprile del 1945. Una tragedia che potere e connessioni non sono riusciti a evitare e che è finita ai margini della narrazione famigliare, diventando “il grande mistero” mai raccontato, tanto che quando i bambini di casa un giorno per gioco rovinarono l’unico ritratto esistente dello zio, un acquerello su tela relegato in soffitta, non furono neppure sgridati. “Sì, era Ettore”, si era limitato a dire Gibò. Dopo il bel libro di Simona Colarizi su Luigi Barzini senior, è toccato al nipote, il regista Andrea Barzini, andare a ricostruire con uno sguardo più personale i fatti che portarono alla morte di Ettore e soprattutto i motivi della loro rimozione come fossero un giallo nel giallo, in un memoir come sarebbe bello averne più spesso, affettuoso, ricco di storie e del tutto privo di retorica.

 

“Mi conosco: se ci finisco dentro, non ne esco più, la cartolina, l’aneddoto, un pettegolezzo e ci sto un anno”, racconta Andrea Barzini ne Il fratello minore, pubblicato da Solferino, nel descrivere lo spirito delle ricerche fatte per riportare nella giusta luce la figura di Ettore, figlio sfuggito al gene della flamboyance, agronomo che dopo un periodo in America e uno in Giamaica, già in Somalia, dove lavorava per la Società anonima banane italiane poi nazionalizzata, si era mostrato poco amichevole verso i fascisti. Nella giusta luce perché Andrea Barzini, grazie a una penna vivace che tratteggia un passato famigliare ben metabolizzato, non cede alla tentazione di fare dello zio Ettore il santo rispetto a cui tutti gli altri sono diavoli, proiettando sullo zio solo “l’eroico bagliore” di chi aveva fatto la resistenza invece di legarsi al regime come il papà. Ettore Barzini emerge come un mite, un goffo pieno di grazia, l’epitome della figura del cadetto e di quella tradizione di secondogeniti maschi che dal Medioevo, “senza soldi e senza titoli, si avventurarono per il mondo alla ricerca di cause, possibilmente difficili, da combattere”, con un attaccamento alla libertà che i fratelli maggiori non avevano avuto modo di sviluppare.

 

Sprezzanti del pericolo, o forse incapaci di valutarlo, i cadetti della storia sono come Ettore, arrestato, portato a San Vittore, torturato e poi spedito nell’inferno austriaco per essersi unito alle attività del Partito d’azione, coinvolto dall’amico Poldo Gasparotto, morto a sua volta nel campo di concentramento di Fossoli. A emergere in filigrana tra le pagine de Il fratello minore c’è il ritratto commovente della Milano delle brigate di Giustizia e libertà, di cui Ettore era membro, e di una Resistenza borghese “senza dogmi né legami con gli operai”, un esercito di signori che “appellandosi a una dottrina luminosa ma astratta” si avventurò “nel terreno minato dell’Italia repubblichina e nazista con una determinazione pari all’impreparazione”. La storia di Ettore è emblematica di quel destino di rimozione collettiva che sembra aver agito anche tra le mura di casa Barzini ma non per Luigi senior, morto nel 1947 “con una scatola di sonnifero accanto al letto” dopo due anni vissuti con un dolore insostenibile addosso e un senso di irrilevanza pesantissimo. I meravigliosi aneddoti di casa raccontano un mondo di contraddizioni, come quelle della zia Giuliana, di sinistra, psicoterapeuta con un solo paziente, un certo Bruno, che lei faceva sdraiare sul letto impero di via Bigli a parlare della sua famiglia semplice finché un giorno lui si alzò e, al grido di “Ti odio!” cercò di strangolarla.

 

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