Chiacchierata con Enrico Vanzina

Stregato da Milano

Michele Masneri

La città e la nebbia viste da Roma: film, parenti, ricordi. E ora un giallo

Enrico Vanzina di Milano è innamorato. “Ci abbiamo girato più film di tutti. Sono diciassette, li hanno contati. Non ci credevo neanche io”. E adesso ha fatto un libro ambientato proprio nella capitale lombarda, “Una giornata di nebbia a Milano”, pubblicato per HarperCollins, uscito in questi giorni,  un giallo un po’ alla Scerbanenco, in una Milano sospesa nel tempo, con quella nebbia da prima del riscaldamento globale.

 

Tutti si stupiscono di questa milanesità  ma in realtà oltre alla trilogia identitaria – Sotto il vestito niente (1985); Yuppies (1986), Via Montenapoleone (1987) “i” Vanzina, cioè Enrico e Carlo (scomparso quasi tre anni fa), emblemi di romanità, hanno definito l’immagine di Milano almeno quanto il Salone del mobile.

 

“I Vanzina sono milanesi”; dice lui, nel suo ufficio ai Parioli, tra Schifano e telegatti, fumando a tutto spiano (“avevo smesso, ho ricominciato dopo la morte di Carlo”). “La famiglia era di Arona, sul lago Maggiore. “Mio nonno Alberto, che era un giornalista, partì nell’Ottocento e andò in Argentina dove fondò il più importante giornale di Buenos Aires. Un giorno dovrò indagare quelle tracce”. Il nonno Vanzina “mentre torna in Italia nel 1916, sulla nave che lo riporta da Mar del Plata a Genova, incontra la contessa Giulia Poggio, romana, sciagurata, che era andata in Argentina a giocare al casinò e aveva perso tutto. Si innamorano, ma erano due anziani, e vivono questo amore da Titanic da vecchi. E’ chiaro che poi il loro figlio non avrebbe potuto fare che il cinema”.

 

 Steno con in braccio i figli Enrico e Carlo Vanzina sul set di "Un giorno in pretura" (1953)

 

Il figlio sarà Steno, uno dei padri della commedia all’italiana. “Vanno ad abitare ad Arona. Ma quando mio nonno muore, mia nonna torna a Roma, e mio padre comincia a fare gli spettacolini”: inizia la romanizzazione dei Vanzina. Steno peraltro è autore di un film che secondo me è il Mad Men italiano: si intitola Susanna tutta panna, è del 1957 - stesso anno in cui viene fondata Esselunga - ed è un inno alla Milano dei consumi. “C’è un inizio fantastico sui cartelloni pubblicitari di piazza del Duomo”, dice Vanzina. 

  

 "Susanna tutta panna", regia di Steno, 1957

   

Pellicola delirante per trama: una giovane pasticciera milanese, Susanna, deve difendersi sia dal fidanzato geloso sia dalla concorrenza di altri pasticcieri che cercano di conoscere la ricetta della rinomata torta che porta il suo nome. Il commendator Botta (assonanza con Motta) è un industriale dolciario che “sta diventando matto” perché non riesce ad avere la ricetta di questa torta alla panna.

 

“E’ un capolavoro”, dice Vanzina, “e un film stranissimo, erano gli anni in cui stava esplodendo la televisione e il cinema era andato in crisi, si pensava che fosse finito. Così si inventano questo  film pochissimo italiano, semmai inglese o americano. Sono anche gli anni in cui nasce Carosello”, che è un’altra questione di famiglia. E così, “La prima volta che sono stato a Milano fu per andare a trovare zio Marcello”, ovvero Marcello Marchesi (personaggio unico per poliedricità: autore di commedie, regista, inventore della moderna pubblicità).

 

“Era mio padrino di battesimo, e aveva inventato slogan come Con quella bocca può dire ciò che vuole, il signore sì che se ne intende, il brandy che crea un’atmosfera. Con mio padre erano amici fin da piccoli. Avevano cominciato a fare gli sceneggiatori insieme nei film di Mario Mattoli. Ma a un certo punto Marchesi si innamora di una milanese, Olga Barberis: talmente innamorato che andava da Roma a Milano in bicicletta a trovarla".

 

"Allora smette di fare la rivista, abbandona il cinema, va a vivere a Milano e lì si deve reinventare: così diventa uno dei protagonisti di Carosello. Lavorava come un forsennato. Si prendeva la simpamina, per inventare slogan tutto il giorno, in uno studio che chiamava ‘il pensatoio’, e noi ragazzini andavamo lì, e lui ci recitava questi slogan: Vespa-pa-pa-pa, parte subito; Vespa-pa-pa-pa, si parcheggia facilmente (e Vanzina imita alla perfezione quello zio strambo che prova gli slogan per lo scooter Piaggio). 

 

“Se ridevamo,  diceva: bona questa, e la scriveva su un quadernetto”. Questo zio Marcello era “un altro esempio di romano che va a Milano e la conquista”. Una tua teoria. “Sì, certo, i romani a Milano hanno sempre un grande successo. Perché Milano è una città che non aspetta altro che di farsi conquistare". Anche la milanese fu conquistata dal romano Marcello Marchesi: "sì, si sposarono, però dopo qualche anno  lui scoprì che lei andava a letto col suo avvocato, e tornò a Roma per sempre”.

 

Roma e Milano, l’abusata questione. “Roma è come quelle savane  africane, dove c’è lo stagno e intorno ci stanno tutti gli animali che convivono. C’è l’elefante, la giraffa e c'è l’ippopotamo. Roma è così più bella delle altre città perché per indolenza, per intelligenza, per clima, per culo, non è mai arrivato un architetto che dice: adesso buttate giù qua e rifacciamo tutto. Così hai ancora tutto lì, ci sono i resti antichi, e accanto la cosa rinascimentale, poi il Settecento, poi l’Ottocento. Milano invece insegue il contemporaneo, così ogni volta butta giù e ricostruisce, prende una botta e poi deve rialzarsi”.

 

Anche col Covid: e pensare che fino a un anno fa eravamo alle prese con la Milano arrembante che bullizzava il resto d’Italia. “Ma guarda che è sempre così. Mi ricordo la grande nevicata del 1985. Roma fu paralizzata per mesi, e a Milano si sbellicarono dalle risate. Poi a un certo punto, per la neve, crollò il palasport di San Siro. Sempre la stessa storia. Fanno gli spiritosi e poi vengono regolarmente puniti”.

 

Vanzina, mezzo romano e mezzo milanese, oltre ai legami familiari ha avuto speciali lenti di osservazione, a parte (vabbè) l’ottica Vanzina che “sono lontani cugini, sta in Galleria, prima stava in via Montenapoleone”. “Una grande scuola è stata il Derby, dove abbiamo conosciuto tutti, da Teo (Teocoli), a Pozzetto, a Abatantuono.

 

Lì, anche, la scoperta “degli inurbati, il metissaggio, anche linguistico: tutto il Sud che è centrale a Milano, una storia che ha la sua versione nobile in Rocco e i suoi fratelli e arriva fino al nostro Eccezziunale veramente. Mi ricordo Gaetano Afeltra, storico giornalista del Corriere, che raccontava sempre di lui che arriva da Amalfi a Milano, e va a guardare i ricchi milanesi nelle pasticcerie, col naso attaccato al vetro”.

 

Al Derby, anche, contatti non solo con la scena comica milanese, che poi utilizzeranno in tantissimi film, ma anche “con la mala. Era affascinantissima. Personaggi incredibili. Li studiavo. Non mi facevano paura. Con la faccia che ho, e i capelli lunghi, mi mimetizzavo, sembravo uno di loro”.

 

E il delitto, il delitto sta anche in questo giallo nebbioso, giallo molto letterario: “La nebbia è una metafora, è uno schermo che attutisce e nasconde le psicologie, i sentimenti, i colori.  E’ strano: la città in cui tutti fanno pubbliche relazioni, è anche la città più riservata, è la città che nasconde”. L’hanno ispirato, dice, un po’ Conan Doyle, un po’ appunto Scerbanenco, e poi un racconto di Guareschi. “Una giornata di nebbia fortissima a Milano, lo scrittore esce da teatro, sale su un taxi, dà l’indirizzo, il conducente parte speditissimo e deciso, e l’autore di Don Camillo, stupito, chiede: ma come fa, con questa nebbia? E il tassista, molto milanese: eh, come faccio. Come lei, no? Lei mica guarda uno per uno i tasti della macchina da scrivere, li conosce e basta, Tac tac tac, e sfreccia nella nebbia, e lo scarica a destinazione.  Guareschi scende e si accorge che è da tutt’altra parte rispetto a dove doveva andare”.

 

A Vanzina piace la Milano un po’ nostalgica, quella delle case di ringhiera, quella di certe vie del centro sempre uguali. “Una persona che proprio mi ha fatto amare Milano è Dino Risi. Quando facemmo la miniserie Vita coi figli, nel 1989 con Giancarlo Giannini e la Bellucci, Risi era felicissimo di tornare a girare a Milano, e un giorno mi fece rifare a piedi il percorso che faceva da piccolo per seguire una ragazzina che gli piaceva. Lo faceva ogni giorno, e ogni giorno la madre lo sgridava perché arrivava in ritardo. Quella passeggiata della memoria con Risi mi ha fatto capire che Milano è un po’ speciale”.

 

Anche la Bellucci era speciale. All’epoca era un’oscura modella a New York.  “Carlo vide una sua foto, piccolissima. Risi era scettico. Mandammo un fax a New York, lei prese l’aereo. Entra al ristorante Bice, dove la aspettavamo, Carlo, Dino e io. E Risi: Uvca! La mia manganina!”.  "Poi dopo con Monica abbiamo fatto I mitici - Colpo grosso a Milano, con la famosa scena alla Stazione centrale”. Ma aveva veramente quell’accento di quella scena memorabile (che-me-stai-a-scippà-er-culo?) “Ma no, assolutamente”, fuma e ride Vanzina. “Per ottenere quell’effetto la mandammo da un coach. Si chiamava Max Turilli, era specializzato nel doppiare gli attori  in marchigiano”.

 

Cioè esisteva  un coach per il marchigiano? “Certo. Doppiò per esempio il capo della polizia che arresta per sbaglio il Marchese del Grillo, o Bernard Blier in Riusciranno i nostri eroi. Girava per Roma in motorino vestito alla bavarese, e per questo fece anche molte parti da tedesco”.  La Stazione centrale sta in molti film dei Vanzina. “La mettevamo spesso, sì. Era una visione che mi colpì fin da ragazzo, quando salivo a vedere Inter-Roma o Milan-Roma. Partivo coi treni dei tifosi, e mi ricordo questa stazione, enorme, scenografica, e pensavo che contro questa stazione non avremmo mai potuto vincere.  Quando girammo Sotto il vestito niente, Moschino fece una sfilata davanti alla Centrale, con lo sfondo di quell’enorme edificio, un po’ egizio. Sono molto orgoglioso di quell’immagine. Nelle commedie italiane non ci sono molte immagini forti di luoghi”

  

Renée Simonsen in "Sotto il vestito niente", di Enrico Vanzina (1985)

 

Sotto il vestito niente, altro delitto, ambientato nel mondo della moda, in pieni anni Ottanta. “Tratto da un giallo di Marco Parma, pseudonimo di un direttore di giornale di allora.  Era un film che doveva girare Antonioni, che però ci convocò e ci disse: secondo me io non lo posso fare, mentre voi lo fareste benissimo. E così fu,  mettendoci dentro un po' di Brian De Palma, e fu  una roba completamente nuova perché il thriller italiano all’epoca era saldamente nelle mani di Dario Argento”. Si seccò Dario Argento? “No, però, ecco, non era contentissimo, diceva: voi che fate così bene le commedie…”.

 

Insomma fanno questo film, ispirato anche al caso Terry Broome, la modella assassina,  e gli stilisti non apprezzano molto. “Nessun sarto volle collaborare, l’unico che accettò fu appunto Moschino. Lucherinata storica: alla prima, poltrone in prima fila coi nomi dei maggiori stilisti: Armani, Krizia, Versace, vuote.  Il giorno dopo, titoloni sui giornali, la moda si ribella. Ma non erano stati invitati”.

 

Altra sigaretta, il fumo sale tra i telegatti. Perché Milano è stata anche Berlusconi, naturalmente. “Avevamo  firmato un’esclusiva per vendere i diritti dei nostri film alla Mondadori, e pochi mesi dopo Berlusconi compra la Mondadori. Allora mi chiama a via Rovani, mi fanno sedere in un salottino, poi mi spostano in un altro, poi in un altro ancora; c’erano dei Canaletto appesi, mi volevano impressionare".

 

"Poi arriva lui, era giovanissimo, e mi dice: ‘senta Vanzina, io vorrei fare dei film, mi spiega come si fa?’. Io un po’ perplesso parlo per mezz’ora, e lui mi dice: ‘adesso io le riassumo per vedere se ho capito bene’. Aveva capito benissimo. A un certo punto ebbe l’idea di fare una serie sui giovani, e facciamo I ragazzi della Terza C, il più grande successo di sempre delle loro reti, credo. Con Zampetti cioè il Dogui. E il cameriere di colore, Isaac George”. Che c’era in tutti i vostri film. Ma che fine ha fatto? “Credo che insegni recitazione sul lago di Como”.

 

Vanzina è pura autobiografia di Mediaset: “Una sera del 1995 vado al Maurizio Costanzo Show ed erano i tempi del referendum sulla pubblicità”. Per proibire gli spot nei programmi tv. “Io dissi che mi sembrava ovvio che la tv commerciale campi di pubblicità. Allora il giorno dopo mi chiama Confalonieri e mi dice: senta Vanzina, vuole diventare il nostro uomo immagine per il referendum? Così mi ritrovo al Tg1 a fare l’appello finale per il no; contro di me c’è D’Alema”. Il no poi  vincerà col 55 per cento di voti, i sacri spot sono salvi. “Mi promisero che avrebbero fatto una via Vanzina a Milano 2. Ma poi non l’hanno più fatta”. 

 

E però c’è via Montenapoleone, la più vanziniana delle vie di Milano. E in quel film, “ricordo Valentina Cortese con delle pellicce pazzesche. Ai tempi si poteva. Era una vecchia amica di mio padre, ci emozionava vederla recitare”. C’è una scena nel finale, quando la vecchia signora rinuncia all'isolamento della sua villa sul lago per tornare a Milano, e al figlio gay, Luca Barbareschi, prima ripudiato e adesso invece finalmente riconciliato con trasporto. Nel ritorno alla vita e a Milano “c’è lei col suo colbacco che sospira;  ‘mah, i colori del lago, la tranquillità del lago. La noia del lago’. Il modo in cui pronuncia noia è uno dei momenti in cui capisci la gioia di scrivere i film, quando l’attore la dice meglio di come l’hai pensato tu”.

 

"Alla prima del film, al cinema Astra, i negozi di via Montenapoleone furono eccezionalmente aperti fino alle 10 di sera per una specie di red carpet con tutti gli attori, Carol Alt, Renée Simonsen, e lei, la Cortese, che salutava come una regina i negozianti, col suo tipico tono; Salumaio! Caaro Salumaio!".

 

"Ma l’ultimo giorno di riprese, appena finito di girare: Carol Alt e Renée Simonsen mi abbracciano.  Camminiamo. Io in mezzo a queste due dee. La gente attorno guarda loro e poi guarda me, sconvolta, chiedendosi chi fossi, chi fosse quel fortunato”. E tu cosa pensavi? “Io avevo solo una speranza. Che, come per magia, passasse in quel momento un mio vecchio compagno di collegio. Un piccolo milanese, che a 14 anni mi tormentava. ‘Uè, Vanzina, ma te ciai un po’ di figa a Milano? Lui diceva di esser pieno di figa a Milano. A 14 anni. Tutte le sere. E io subivo. Allora, in quel momento, coi flash, con Carol Alt e Renée Simonsen sottobraccio, ho pensato solo a questo. Che passasse lui, e mi vedesse. Finalmente con la figa: finalmente a Milano”.