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Non c’è pace per Augusto

Andrea Battistuzzi

Dopo quindici anni di cantieri apre al pubblico il mausoleo. Ennesimo rifacimento di una piazza simbolo di Roma

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E pensare che Augusto questo luogo lo volle per celebrare la pace attorno alle sue gesta. Invece la piazza che porta il nome del primo imperatore di Roma resta da un secolo un progetto incompiuto, schiacciato tra la burocrazia delle sovrintendenze e i rompicapi urbanistici, su cui da decenni si insultano i candidati sindaco della città. Eppure ogni primo cittadino, ogni architetto del Comune di Roma che si sia fermato a guardare quella piazza ha sognato di riprogettarla, di ridarle il posto d’onore che le spetta nel cuore del centro storico della Capitale, di vendicarla dei decenni di degrado e degli annunci di gloria preelettorali.

 

Molti di questi annunci sono arrivati anche in qualche delibera per poi essere dimenticati, irrisi dai sovrintendenti o archiviati come obbrobri dalle giunte successive. In meno di cento anni il museo dell’Ara Pacis è stato abbattuto e rifatto due volte e per due volte l’intera piazza è stata sventrata. E quello che verrà svelato fra pochi giorni resta ancora un progetto incompiuto. Piazza Augusto Imperatore è uno dei tanti coiti interrotti dell’urbanistica di Roma. Sulle rive del Tevere il primo imperatore di Roma volle la sua “mole”, il tempio funebre che ha ospitato per secoli le spoglie della sua famiglia e che fino alla costruzione degli argini piemontesi guardava con la coda dell’occhio l’altro complesso funebre imperiale, quello di Adriano, costruito un’ansa del fiume più a valle.

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Martoriato nel ‘500, assediato dai Lanzichenecchi, trasformato in prigione, rifugio papale e poi museo, la Mole Adriana ha avuto tutt’altro destino e da vent’anni ha trovato la sua pace con la terrazza giardino regalatagli negli anni 90 dalla giunta Rutelli, che riuscì a deviare il traffico del lungotevere e a scavare il sottopasso di via della Conciliazione in vista del Giubileo del 2000. Stessa sorte sarebbe dovuta toccare a piazza Augusto Imperatore nei sogni del sindaco architetto Francesco Rutelli, che nel 1996 decise tra le polemiche e le accuse di nepotismo architettonico di affidare senza bandi di gara il rifacimento della teca dell’Ara Pacis all’archistar statunitense Richard Meier, per farne un complesso museale degno di quell’altare che celebrava la pace augustea. Lui che la pace l’aveva portata per tre volte nell’impero e che la volle immortalare nel suo testamento che ancora oggi, sporco di smog e di fuliggine, sta in quei pochissimi metri che separano il mausoleo dall’Ara Pacis. Un’opera che Gianni Alemanno e Vittorio Sgarbi definirono nell’ordine “pompa di benzina” e “cesso inverecondo”, colpevole di oscurare la facciata barocca della piccola chiesa di San Rocco alle sue spalle.

 

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In un libro da poco uscito, Tutte le strade partono da Roma (Laterza), Rutelli rivendica quella scelta sostenendo che solo lo stile razionalista di Meier poteva dialogare con quella piazza fascistizzata e che un bando di gara avrebbe preso decenni per poi arenarsi. Quella teca invece non aveva abbastanza anni da vivere per aspettare una gara internazionale coi tempi di Roma. La sovrintendenza aveva più volte avvisato che la struttura non reggeva più le vibrazioni del traffico che dal 1938 le scorreva accanto notte e giorno. Morpurgo forse non aveva pensato che i posteri ci avrebbero fatto un capolinea. Per la prima volta nella storia l’accordo su un progetto urbanistico di Roma non veniva preso nel palazzo senatorio, da dove l’ufficio del sindaco si affaccia col suo balconcino sui fori, ma sulla decima avenue di New York, in uno studio di architettura di Midtown tra la trentaseiesima e la trentasettesima strada.

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Apriti cielo. Meier a dirla tutta aveva già lavorato col Campidoglio per realizzare in vista del Giubileo una chiesa in borgata, a Tor Tre Teste. Era il 1995 e in quel caso l’architetto statunitense un bando di gara lo aveva vinto davvero, con uno dei primi progetti a incorporare uno speciale intonaco in grado di intrappolare la CO2. Come la Mole Adriana, anche piazza Augusto Imperatore, schiacciata sessant’anni prima dai palazzi razionalisti di Morpurgo, avrebbe dovuto avere il suo sbocco sull’acqua, il suo giardino pensile tra i platani affacciato sull’antico porto di Ripetta. Per farlo bisognava però scavare un altro sottopasso sul Lungotevere, all’altezza di via Tomacelli, che avrebbe decongestionato due dei semafori più infernali del centro, quelli che portano all’ingresso del Muro Torto. Una fonte di ingorghi micidiali che per ironia della sorte fece arrivare in ritardo persino l’assessore all’Urbanistica di quegli anni, Roberto Morassut, a una delle varie inaugurazioni volute da Veltroni per il nuovo Ara Pacis. Era il 21 aprile del 2006. Morassut arrivò a conferenza stampa già iniziata e quando lo vide l’assessore Gianni Borgna (che ha guidato la cultura di Roma per tutti gli anni del centrosinistra, con Rutelli prima e con Veltroni dopo) lo salutò con un sorriso ticchettando con l’indice della mano destra sull’orologio al polso, come si fa con gli amici arrivati in ritardo a una cena. Morassut allargò le braccia e gli rispose sorridendo: “Ero nel traffico, te l’ho detto che dobbiamo fare il sottopassaggio”.

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A Giubileo finito, però, traforare il Lungotevere sembrava una scalata all’Everest in pieno inverno, con la burocrazia capitolina tornata ai suoi tempi pachidermici. Il sottopasso fu comunque approvato a febbraio del 2006 e messo a bando nel maggio seguente. Non se ne fece nulla. Anche l’inaugurazione veltroniana dell’Ara Pacis (se ne ricordano almeno due), come quella di questi giorni della piazza rinnovata, arrivava poco prima delle elezioni (la scusa è sempre quella del compleanno di Roma il 21 aprile). Quel cantiere era costato sei anni di lavori e sedici milioni di euro. Il progetto incompiuto di Rutelli per la terrazza sul Tevere invece fu ripreso in mano più volte da Veltroni che voleva completare la rinascita dell’area, fino a quel bando internazionale vinto da Francesco Cellini nel 2006 che solo in parte vede la luce in questi giorni e che prevedeva di abbassare il manto stradale vicino alla piazza per far tornare i pedoni all’originale piano archeologico.

 

Era l’epoca in cui a Roma nessun sogno cantieristico era proibito. Grazie al project financing la giunta Veltroni trasformò Roma per qualche anno nella Berlino degli anni 90, con archistar in arrivo da tutto il mondo. Rem Koolhaas che riprogettava i mercati generali per farne la Città dei Giovani (archiviata senza appello da Gianni Alemanno un paio di anni dopo), Carlo Aymonino che rifaceva i Musei Capitolini, Michele De Lucchi che dirigeva i lavori del nuovo Palazzo delle Esposizioni firmato da Paolo Desideri (che in quegli anni ridisegnò anche la stazione Tiburtina), e poi il nuovo Museo Macro di Odile Decq, il MAXXI di Zaha Hadid, la nuova Fiera di Tommaso Valle, la Nuvola di Fuksas e così via. Sessanta cantieri aperti in pochi anni, tanto che Veltroni sognava per Roma un’Olimpiade dell’Architettura da tenersi ogni quattro anni nella Capitale.

 

Un’altra sfida sfacciata alla Biennale di Venezia dopo quella della Festa del Cinema di Roma che si tiene da allora poche settimane dopo il festival della Laguna. Poi nel 2006 arriva il progetto attuale (ebbene sì, quindici anni dopo a Roma si può ancora usare l’aggettivo attuale), più volte stoppato e ripreso per la gioia degli “umarell” del centro storico che per anni hanno sbirciato tra le ringhiere e i loghi di Tim (la cui fondazione ha messo sei milioni e più di euro nel cantiere) per vedere quale improvvisa svolta prendesse la piazza. Da ultimo fu Ignazio Marino a trovare altri fondi per ultimare il restauro: due milioni di euro dal Mibact e 2,2 da Roma Capitale. Pochi mesi fa l’accelerata al progetto “Urbs et Civitas” e la sindaca Raggi che di quel cantiere vuole fare uno dei suoi fuochi pirotecnici prima delle elezioni di giugno.

 

Dopo le strade riparate l’estate scorsa, le piste ciclabili che sbucano dipinte sull’asfalto tra le macchine parcheggiate dalla sera alla mattina. Tutte opere che hanno richiesto anni per essere sbloccate in modo corretto, direbbero dal Campidoglio, oppure miracoli dell’anno elettorale dopo un mandato invisibile direbbero altri. Così, il nuovo mausoleo sarà di nuovo accessibile dal 1° marzo e, per volere della sindaca, addirittura gratuito per i cittadini di Roma. Con un grande slargo scavato a tambur battente qualche metro più in basso rispetto al manto stradale, che pochi giorni prima dell’apertura è ancora un cantiere inzuppato dal fango delle piogge invernali. Per i romani della mia generazione quella piazza è stata da sempre un capolinea degli autobus, il mitico 913 che porta a Monte Mario dove la metro non è mai arrivata e mai arriverà. Oppure un parcheggio per chi va a fare lo struscio in via del Corso. Per molti di noi è stata un campo da calcetto urbano sui larghi marciapiedi disegnati nel Ventennio o un esercizio di latino per i più romantici che cercavano di decifrare le Res Gestae del Divo Augusto, fatte incidere dal fascismo sotto la teca dell’Ara Pacis. Una sera ebbi la fortuna di passarci con Benedetto Sajeva, latinista e storico preside di svariati licei classici della Capitale e insieme passammo in silenzio diversi minuti a cercare quella frase che più di tutte Augusto aveva voluto per ricordare che aveva portato più volte lui la pace a Roma di quante la città ne avesse conosciute in tutta la sua storia.

 

“Ianum Quirinum {...} ter me principe Senatus claudendum esse censuit”. “Per tre volte sotto il mio principato il Senato ordinò la chiusura del tempio di Giano Quirino”, le cui porte rimanevano aperte in tempo di guerra. Per il duce che si rifaceva alla gloria dell’antica Roma, quella piazza che portava il nome del fondatore dell’impero non poteva restare abbandonata. Sui resti immortali di Augusto nei secoli erano passati spettacoli da circo, balli in maschera e corride con tori e bufale che sulle mura romane avevano persino le loro stalle. Sopra al mausoleo, infatti, nel ‘700 fu costruito un anfiteatro per spettacoli popolari (con velario del Valadier) che ai primi del ‘900 ospitava per via della sua ottima acustica addirittura i concerti dell’orchestra sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia (ci passò anche Toscanini). Ma i resti della grande Roma dovevano tornare alla luce in tutta la loro gloria. Così Mussolini fece fare in fretta e furia la teca che per sessant’anni ha custodito l’Ara Pacis in vista del bimillenario della nascita dell’imperatore, nel 1938. Per farvi posto i tre immensi palazzi privati che affacciavano sul fiume furono spazzati via in poche settimane, come quelli che nei secoli erano sorti accanto al mausoleo.

 

Così sorsero quei palazzi grigi e quei colonnati per niente romani affacciati sul mausoleo dove l’anno prossimo aprirà l’hotel Bulgari, Covid permettendo. Cento stanze e decine di suite nel cui primo spot pubblicitario del 2020 apparivano insieme Jean Cristophe Babin, amministratore delegato del Gruppo Bulgari, e la sindaca Raggi. All’epoca fioccarono i tweet che ironizzavano sulla passione “cinque stelle” della Raggi divenuta amore per gli hotel super lusso. I facoltosi ospiti di Bulgari affacceranno però ancora su un cantiere, quello che si aprirà a Dio piacendo per finire il progetto di Cellini sull’altro lato della piazza per far tornare alla luce un tratto di strada romana qualche metro più in basso. Tempi stimati: 2023 o 2024 minimo. Chissà se un giorno calcoleremo con onestà gli anni dei lavori pubblici di Roma con un’unità di misura diversa, come si fa con i viaggi spaziali.

 

In questo spicchio di Roma un omino barbuto dagli occhiali aggiustati con lo scotch si è ritagliato per tre decenni il suo piccolo atelier d’arte a cielo aperto. Fausto Delle Chiaie, visionario scambiato da molti passanti per un vagabondo che Achille Bonito Oliva definì “artista en plein air” e che da trentadue anni trasforma in piccole opere la spazzatura trovata nel mausoleo, dai mozziconi di sigaretta ai semplici sassi. Sarebbe stato bello dedicargli uno spazio in questa riqualificazione epocale, ma per questo c’è tempo. Quello che vedremo tra poche settimane non è che una delle tante evoluzioni di questa piazza mille volte ridisegnata e destinata a non trovare mai pace. Come Mussolini riportò alla luce il mausoleo, così il progetto di oggi lo risotterra in parte di nuovo.

 

Camion di terra si sono avvicendati nelle ultime settimane per immergere una buona parte delle mura (protette da pannelli di legno distanti qualche centimetro dai resti antichi) e creare attorno al mausoleo dei giardini pedonali. Diceva Federico Zeri che bisogna lasciare qualcosa da disseppellire anche alle prossime generazioni. Possiamo scommetterci che fra un compleanno di Roma e un anniversario augusteo, tra qualche decennio torneranno le ruspe per aprire l’ennesimo progetto definitivo attorno alla tomba di Ottaviano.

 

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