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scolaro e insegnante

Vite diverse, caratteri inconciliabili. Ma Joyce e Svevo furono amici sinceri

Alfonso Berardinelli

In un libro l’incontro a Trieste e un ritratto dell’irlandese, tratto dalla conferenza che l'intellettuale italiano tenne sullo scrittore irlandese nel 1927, un anno prima della sua morte, al circolo milanese “Il Convegno”

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Ecco il venticinquenne James Joyce a Trieste descritto dal quarantenne Italo Svevo: “Quando lo vedo camminare per strada penso sempre che stia godendo di uno svago, uno svago pieno. Nessuno lo attende ed egli non vuole raggiungere uno scopo né incontrare qualcuno. No! Cammina per essere lasciato a sé stesso. Neppure cammina per la salute. Cammina perché non è fermato da niente. Immagino che se trovasse la via sbarrata da un muro alto e grosso non si scomporrebbe minimamente. Cambierebbe direzione e se neanche la nuova direzione si rivelasse sgombra la cambierebbe ancora e seguiterebbe a camminare, le mani che seguono il movimento del corpo tutto, le gambe all’opera senza alcuno sforzo di allungare o affrettare il passo. No! Il suo passo è invece il suo e di nessun altro e non può essere né allungato né accelerato”. Svevo aveva bisogno di perfezionare la sua conoscenza della lingua inglese per il suo lavoro di commerciante di vernici e alla Berlitz School triestina seguiva le lezioni di Joyce, giovane povero in canna (sua moglie Nora stirava per la moglie di Svevo) ma fermamente assorbito dal suo lavoro di scrittore in esilio volontario dalla patria Irlanda.

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Ecco il venticinquenne James Joyce a Trieste descritto dal quarantenne Italo Svevo: “Quando lo vedo camminare per strada penso sempre che stia godendo di uno svago, uno svago pieno. Nessuno lo attende ed egli non vuole raggiungere uno scopo né incontrare qualcuno. No! Cammina per essere lasciato a sé stesso. Neppure cammina per la salute. Cammina perché non è fermato da niente. Immagino che se trovasse la via sbarrata da un muro alto e grosso non si scomporrebbe minimamente. Cambierebbe direzione e se neanche la nuova direzione si rivelasse sgombra la cambierebbe ancora e seguiterebbe a camminare, le mani che seguono il movimento del corpo tutto, le gambe all’opera senza alcuno sforzo di allungare o affrettare il passo. No! Il suo passo è invece il suo e di nessun altro e non può essere né allungato né accelerato”. Svevo aveva bisogno di perfezionare la sua conoscenza della lingua inglese per il suo lavoro di commerciante di vernici e alla Berlitz School triestina seguiva le lezioni di Joyce, giovane povero in canna (sua moglie Nora stirava per la moglie di Svevo) ma fermamente assorbito dal suo lavoro di scrittore in esilio volontario dalla patria Irlanda.

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La descrizione che il maturo scolaro fa del suo ventenne insegnante è un semplice compitino di quelli che una volta si assegnavano ai bambini: “Descrivi il tuo maestro, o il tuo migliore amico, o i tuoi genitori”. Ma è chiaro che Svevo non finge affatto di essere uno scolaretto. In poche righe c’è il ritratto perfetto dell’artista Joyce, con la sua determinazione e il suo inflessibile istinto. Svevo capisce subito che quell’orgoglioso giovanotto non si fermerà di fronte a nessun ostacolo, pur non tradendo mai la propria natura, il proprio particolare talento di scrittore. In un certo senso sembra che Svevo ammiri in Joyce una qualità di caratteriale ostinazione e fedeltà all’arte che a lui era mancata. Credo che precisamente in questo i due scrittori, fra cui nacque una vera, sincera e generosa amicizia, erano lontani e inconciliabili: carattere forte e vocazione letteraria totalizzante nell’irlandese, carattere oscillante portato al compromesso, all’ironia e all’umorismo nel triestino. Ma non minore era la differenza di esperienze e biografie: mentre Joyce aveva ancora davanti a sé la scrittura e la pubblicazione dei Dubliners (1914) e dell’Ulisse (1922), Svevo aveva alle spalle solo brucianti delusioni: i due romanzi Una vita (1892) e Senilità (1898) erano stati ignorati dalla critica e la sua stessa identità di scrittore era in forse.

 

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Mi permetto qui di notare ancora una volta che la volontà programmatica di Joyce lo ha spinto a un eccesso di arte, mentre la forza e l’originalità narrativa di Svevo, soprattutto nel suo capolavoro La coscienza di Zeno (1923), è tutta nell’apparente e reale semplicità di procedimenti letterari. A chi fosse curioso di sapere qualcosa in più (o meglio più o meno tutto) su quell’amicizia triestina, consiglio il libro recentemente uscito da Passigli (pp. 138, euro 16,50) che porta in copertina i nomi dei due grandi scrittori. Il libro è introdotto dal curatore Alessandro Gentili con un saggio in cui sono precisati e chiariti molti interessanti particolari di quell’incontro. Il testo centrale è quello della conferenza su Joyce che Svevo lesse nel 1927, un anno prima della sua morte, al circolo milanese “Il Convegno” ma che venne pubblicato integralmente nella rivista del circolo solo dieci anni più tardi.

 

Ecco alcune righe: “La vita del Joyce a Trieste nella sua esteriorità è presto detta: lotta generosa per la vita dei suoi (...) Appena dopo la guerra fu sollevato da ogni preoccupazione dal successo. Talvolta a Trieste egli sentì di facilitarsi la vita elevando la sua professione o mutandola. Una volta si sottopose ad un esame presso l’Università di Padova dove era stato aperto il concorso ad una cattedra inglese. Non so come ciò poté avvenire, ma è certo che il posto non l’ebbe e non dimenticherò mai la disillusione che gliene derivò (...) È due volte ribelle: all’Inghilterra e all’Irlanda. Odia l’Inghilterra e vorrebbe trasformare l’Irlanda. Ma appartiene tanto all’Inghilterra che come tanti suoi predecessori irlandesi riempirà qualche pagina della storia letteraria inglese e non delle meno fulgide; è tanto irlandese che gl’inglesi non sanno amarlo. Non lo sentono proprio e non v’è dubbio che il suo successo non avrebbe potuto nascere in Inghilterra se la Francia e alcuni letterati americani non l’avessero imposto” (letterati come Ezra Pound e T. S. Eliot). Alle circa trenta pagine della conferenza seguono altri scritti esaurientemente annotati da Gentili, tra cui uno scambio epistolare che va dal 1909 al 1928.

 

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