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Fine poco gloriosa

Mariarosa Mancuso

Abbiamo letto “Silenzio” di Don DeLillo, osannato da tutti. Una pessima idea

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Meglio tenersi cari i pregiudizi, riparano da tante delusioni. Mai avremmo letto un romanzo con la parola “silenzio” nel titolo, se non l’avesse scritto Don DeLillo (quando la dannata parola compare in copertina, ne seguono migliaia di altre per celebrare la vita interiore, la meditazione, altre diavolerie inventate per uccidere la brillante conversazione). Mai avremmo letto un romanzo di Don DeLillo sotto le 400 pagine: “Rumore bianco”, uscito nel 1985 e tornato all’onor del mondo ora che Noah Baumbach ha deciso di farne un film con Greta Gerwig e Adam Driver, sfiora la perfetta lunghezza. Vladimir Nabokov sostiene che ogni romanziere ha la sua misura: DeLillo è sublime nelle 800 pagine di “Underworld”, o in “Libra” che ne conta più o meno la metà.

 

Tre romanzi che bastano per dominare il Novecento americano – gli amici fidati potrebbero far sparire il resto, a cominciare dall’insopportabile “Body Art”. “Il silenzio” (Einaudi) sta piacendo oltre ogni misura e decenza, regalando allo scrittore l’etichetta di “profetico”. Non la prima cosa che era venuta in mente leggendo mezzo secolo di storia americana – dal 1951 al 1997, quando “Underworld” uscì – raccontata seguendo una palla da baseball che si perde tra il pubblico allo stadio e passa di mano in mano. Quindi abbiamo messo da parte i pregiudizi, abbiamo letto le cento paginette. Pessima idea: abbiamo troppo amato Don DeLillo per rassegnarci a una fine così poco gloriosa. Febbraio 2022, una coppia (lei poetessa) rientra in aereo da Parigi a New York. È attesa da un’altra coppia, più un giovanotto spaiato, per guardare in compagnia la finale del Super Bowl.

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Turbolenza in volo, con disastroso atterraggio. Stupore a terra: lo schermo della tv è diventato nero, assieme a tutti gli smartphone. Stesso blackout, probabilmente esteso al mondo intero (purché munito di cellulare). Non conoscendo la causa, vengono additati i soliti sospetti. Primo, gli algoritmi (parola che vorrebbe dire “calcolo” e ormai indica i “poteri forti” in campo informatico). Secondo, i cinesi, detti anche “barbari di Pechino” (da qui a vederci la pandemia, per i recensori che trattano i romanzi come carne da dibattito, il passo è immediato). Una professoressa di Fisica, e soprattutto il suo ex allievo Max, fanno entrare come “guest star” il profeta di sventura Albert Einstein: “La terza, non so. Ma la quarta guerra mondiale si combatterà con pietre e bastoni”. Nella situazione apocalittica, i cinque sono decisamente tranquilli. Non urlano, girano parole come “tensore metrico” o “covarianza”. La poetessa – “di ascendenze caraibiche e asiatiche” – rifinisce i suoi versi “oscuri, intimi, di notevole impatto”. Come se ancora ci fosse un neo eletto presidente a cui recitarli. Forse era questa la profezia: Don DeLillo non racconta la fine del mondo, bensì il culto di Amanda con il cappottino giallo.

 

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