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La parabola del design Memphis: da kitsch a cult

Marta Galli

Tra i desiderata dell’impiegato in cerca di status, ecco come i mobili del collettivo più famoso del design hanno definito l’estetica pop degli anni ottanta. E anche quella dei nostri piccoli schermi

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I designer di Memphis non amano parlare di Memphis. “E’ come chiedergli della prima moglie” dice un conoscente. Così, mentre l’anniversario incombe, il celeberrimo collettivo è orfano di padri accorsi a festeggiarlo. C’è il Covid e il basso profilo è molto chic; dunque anche la mostra Memphis: 40 Years of Kitsch and Elegance alla Vitra Design Museum Gallery di Weil am Rhein in Germania apre in sordina (ufficialmente da questo weekend ma non si può andare a vedere finché Merkel non allenterà le restrizioni pandemiche e prosegue comunque fino a gennaio 2022). Va detto, la fama del gruppo Memphis è sproporzionata alla durata della vicenda. Otto anni scarsi dalla prima pizza in compagnia a casa di Ettore Sottsass e Barbara Radice – quando secondo leggenda il nome del movimento fece capolino dal refrain di un disco di Bob Dylan inceppato –  alla disgregazione – quando, uscito Sottsass, ciascuno decise di proseguire per proprio conto. Non che ci sia mai stato un vero studio in cui s’aggregavano, piuttosto allegre trattorie; e comunione d’intenti. 

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I designer di Memphis non amano parlare di Memphis. “E’ come chiedergli della prima moglie” dice un conoscente. Così, mentre l’anniversario incombe, il celeberrimo collettivo è orfano di padri accorsi a festeggiarlo. C’è il Covid e il basso profilo è molto chic; dunque anche la mostra Memphis: 40 Years of Kitsch and Elegance alla Vitra Design Museum Gallery di Weil am Rhein in Germania apre in sordina (ufficialmente da questo weekend ma non si può andare a vedere finché Merkel non allenterà le restrizioni pandemiche e prosegue comunque fino a gennaio 2022). Va detto, la fama del gruppo Memphis è sproporzionata alla durata della vicenda. Otto anni scarsi dalla prima pizza in compagnia a casa di Ettore Sottsass e Barbara Radice – quando secondo leggenda il nome del movimento fece capolino dal refrain di un disco di Bob Dylan inceppato –  alla disgregazione – quando, uscito Sottsass, ciascuno decise di proseguire per proprio conto. Non che ci sia mai stato un vero studio in cui s’aggregavano, piuttosto allegre trattorie; e comunione d’intenti. 

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Bastò la prima mostra, nel settembre 1981, a creare il fenomeno. Corso Europa. Milano, cuore della civiltà del design. Fuori dalla galleria Arc ’74 era giunta una turbolenta marea di gente. Raccontano che Sottsass s’affacciò temendo fosse scoppiata una bomba. Scoprì che loro erano la bomba. Un cronista americano scrisse che quei mobili sembravano “il matrimonio riparatore tra il Bauhaus e Fisher-Price”. “I designer di Memphis volevano mettere in discussione le regole del buon gusto e il dogmatismo vigente del Modernismo” spiega il direttore del museo Vitra, Mateo Kries. “In particolare consideravano troppo angusta l’idea funzionalista: la funzione di una sedia, sostenevano, non è solo sedersi ma anche quel che ci racconta”. Era quindi lecito buttare al vento i divieti di ornamentalità per una codificazione più emozionale dell’arredo, che Adolf Loos (pioniere del movimento moderno) avrebbe trovato perversa.

 

Christoph Radl, art director, all’epoca dei fatti un giovane grafico di Sottsass & Associati, ricorda che da quell’evento e per tutto l’anno a seguire fioccarono copertine. “Avevamo un faldone in studio zeppo di rassegna stampa e i giornalisti ci venivano a trovare ogni tre per due”. Oliviero Toscani accompagnò Sottsass da Esprit, in Germania: quartier generale e negozi del marchio si rifecero il look con Memphis. “In fondo non era niente di nuovo” ricorda il fotografo. “Sottsass aveva già militato in movimenti di rottura, ma Memphis debuttò al momento giusto nel posto giusto: Milano era sotto i riflettori per quel che stava succedendo nella moda, si presentava come un centro d’innovazione estetica, e c’era voglia di frivolezza. È stato tutto molto modaiolo”.

 

I mobili Memphis divennero l’uzzolo dei collezionisti e Karl Lagerfeld, fresco d’incarico da Chanel, acquistò pressoché l’intera collezione per l’appartamento a Monte Carlo. Per l’architetto Emilio Ambasz erano così pieni di personalità da somigliare a simpatici animali domestici. Sottsass disse a un certo punto che non erano comperati dalla borghesia milanese, ma dall’impiegato di Messina: che cercava qualcosa d’irraggiungibile, uno status. “Suona come una battuta” commenta di nuovo Radl “però è vero che li avevano prototipati per la produzione in serie; nel suo sogno dovevano essere per tutti”. Be’, il sogno non si realizzò, i pezzi erano costosi da produrre e molti sostengono che questa sia stata la ragione dell’esaurirsi dell’esperienza. Lagerfeld vendette la sua collezione all’asta nel 1991 e i designer del gruppo cominciarono a dedicarsi a un genere meno rumoroso. Sottsass era ormai settantenne, ma gli altri, tra cui Michele De Lucchi, Aldo Cibic, Matteo Thun e Nathalie Du Pasquier erano ancora giovani e all’inizio delle loro carriere. “Fu anche l’ultima volta in cui il design pensò di cambiare il mondo, poi si è ridotto tutto a marketing”. 

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Oggi di quell’estetica schiamazzante è rimasta traccia nella grafica, nella moda: e quindi pattern, tonalità sgargianti, kitsch a non buon mercato. Ed è diventata una sorta di – come direbbe Fulvio Carmagnola – “buon gusto coatto”. Va per la maggiore nel linguaggio globale in Internet e vince l’attenzione dell’uomo capace di otto secondi scarsi di concentrazione.  “Memphis ha anticipato l’effetto dei media digitali sul design enfatizzando l’immagine dell’oggetto” racconta Kries. “Ha anche anticipato un design che si allontana dal pensiero unico industriale-occidentale inglobando un mix di culture e riflettendo il mondo nella sua diversità”. O “diversity”, come la chiamano in inglese – perché è una preoccupazione politically correct che viene da oltreoceano. Mancherà nei board di amministrazione, ma nei beni mobili di “diversity” ne abbiamo. A essere venuta meno semmai è la prospettiva ironica, che ai tempi di Memphis sfondava la ristrettezza del reale.

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