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il foglio del weekend

Il potere della fantasia

Siegmund Ginzberg

I libri, le poesie, la militanza. Quando Gianni Rodari difese i fumetti dall’attacco di Nilde Iotti e Togliatti

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Non ho mai conosciuto Gianni Rodari. Quando lui pubblicava i primi racconti per bambini, io ancora non leggevo l’italiano, frequentavo una scuola elementare turca. Quando lui scriveva sul Pioniere, mio padre non comprava l’Unità, il giornale di cui era il supplemento settimanale: andava rinnovato ogni anno il nostro permesso di soggiorno di immigrati dalla Turchia, mio padre non voleva guai con la Questura, dalla quale dipendeva il rinnovo. Quando lui pubblicò le Filastrocche in cielo e in terra e le Favole al telefono, e le pubblicò per Einaudi, non li lessi, perché in casa non si compravano libri. Quando lui scriveva sul Corriere dei piccoli, qualche volta mi sarà capitato di leggerlo. Ricordo le deliziose vignette del Signor Bonaventura di Sergio Tofano. Ma confesso che mi piacevano assai di più quelle del “fascista” di Walt Disney, Topolino e Nembo Kid. Poi ero cresciuto, non leggevo più “roba per ragazzi”, e quindi non leggevo Rodari, ma l’Unità, Rinascita e il Capitale di Marx. Quando mi fecero, neanche ventenne, redattore capo di Critica marxista, non mi venne in mente di chiedere di scrivere a Rodari. Me ne vergogno. E’ una delle non tantissime cose che, potessi tornare indietro, farei altrimenti…

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Non ho mai conosciuto Gianni Rodari. Quando lui pubblicava i primi racconti per bambini, io ancora non leggevo l’italiano, frequentavo una scuola elementare turca. Quando lui scriveva sul Pioniere, mio padre non comprava l’Unità, il giornale di cui era il supplemento settimanale: andava rinnovato ogni anno il nostro permesso di soggiorno di immigrati dalla Turchia, mio padre non voleva guai con la Questura, dalla quale dipendeva il rinnovo. Quando lui pubblicò le Filastrocche in cielo e in terra e le Favole al telefono, e le pubblicò per Einaudi, non li lessi, perché in casa non si compravano libri. Quando lui scriveva sul Corriere dei piccoli, qualche volta mi sarà capitato di leggerlo. Ricordo le deliziose vignette del Signor Bonaventura di Sergio Tofano. Ma confesso che mi piacevano assai di più quelle del “fascista” di Walt Disney, Topolino e Nembo Kid. Poi ero cresciuto, non leggevo più “roba per ragazzi”, e quindi non leggevo Rodari, ma l’Unità, Rinascita e il Capitale di Marx. Quando mi fecero, neanche ventenne, redattore capo di Critica marxista, non mi venne in mente di chiedere di scrivere a Rodari. Me ne vergogno. E’ una delle non tantissime cose che, potessi tornare indietro, farei altrimenti…

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Ma c’è una cosa che mi riempie di orgoglio: pensare che per molti anni ho lavorato nella redazione de l’Unità, la stessa in cui lavorava Rodari. Chissà, forse usavo la stessa vetusta Olivetti che aveva usato lui. Col carrello che ormai si inceppava una volta su due, e i tasti consumati dalle dita. Avevamo, dopo qualche anno di praticantato beninteso, la stessa paga da metalmeccanico. La stessa militanza. Tutto sommato, la stessa libertà di pensare e di scrivere, malgrado talvolta lo bacchettassero. C’era naturalmente una differenza di età, di tempi. Ma la differenza principale, di fondo, era un’altra: che Rodari aveva una straordinaria, inesauribile fantasia. E io niente. Dalle redazioni del giornale del Pci sono passati non solo grandi giornalisti, ma alcuni tra i più grandi della letteratura italiana e del regno della fantasia. Oltre a Gianni Rodari vengono in mente: Italo Calvino, Alfonso Gatto, Elio Vittorini, Cesare Pavese… Scusate se è poco…

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Il Meridiano Mondadori appena pubblicato a cura di Daniela Marcheschi mi consente di colmare in parte una lacuna personale che si era trascinata per troppo tempo, di raggiungere, oltre a quelli che avevo già frequentato, sia pure in ritardo, testi che ancora non conoscevo. Il volume (Gianni Rodari, Opere, Mondadori Meridiani 2020, 2.032 pagine, 90 euro) racconta infatti anche processi meno noti del suo laboratorio (poesie, filastrocche, favole, racconti, romanzi, saggi e articoli vari), inquadrandoli, grazie a un impressionante apparato di cronologia biografica e note, nel contesto, nelle epoche attraverso le quali si snoda la sua attività di giornalista, scrittore per adulti e per bambini e, soprattutto, di maestro assoluto di fantasia. E’ introdotto da dotto saggio della Marcheschi, fin troppo denso di suggerimenti e rimandi letterari, che offre parecchio food for thought, come direbbero gli anglosassoni, nutrimento per pensare, anche se fa in qualche modo a pugni con la semplicità, sia pure ottenuta a prezzo di grande fatica, che caratterizza lo stile di Rodari, il suo impegno costante a essere immediatamente comprensibile a tutti. Ed è accompagnato, nello stesso astuccio editoriale, da un prezioso quaderno di illustrazioni a colori, a cura di Grazia Gotti, fatte per i suoi testi più celebri, da artisti come Verdini, Munari, Altan e Mattotti.

 

Insomma, un bellissimo libro. Forse il più bello e utile, assieme alle Lezioni di Fantastica. Storia di Gianni Rodari, di Vanessa Roghi (Laterza 2020, pagine 231, euro 19), tra le numerose pubblicazioni nell’anno del centenario della nascita. Un libro da tenere non sugli scaffali, ma a lungo sul comodino, come livre de chevet, da godersi poso per volta, notte dopo notte, come m’ero goduto, in altri tempi, altre epoche, altre latitudini, altri grandi classici. Con simile piacere ricordo di aver letto nel contado senese la Commedia di Dante, a Teheran le antiche storie d’amore persiane, in Cina il Romanzo dei tre regni, in America la fantascienza di Philip K. Dick, a Parigi le Fables di La Fontaine e Jacques Prevert. Come Simenon e Prevert, e non moltissimi altri classici, Rodari è un autore che non stanca mai. Non annoia nemmeno quando è datato, quando ti dà la sensazione di fare un po’ troppo la morale, la predica, forse un tantino di propaganda. Rodari ha una produzione sterminata, come spesso accade ai giornalisti, in cui però si trova sempre qualcosa di nuovo e di attuale.

 

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E’ un giornalista di parte, militante, fazioso se si vuole, ma nel senso alto del termine, quello che fa dire a Dante che la vita degna di essere vissuta è una vita di “milizia”. Può succedere di “militare” per cause sbagliate, perdute, senza futuro. L’importante è non farlo con fanatismo. Non è questione di sinistra o di destra. E’ questione di avere qualcosa da dire. Il Dante reazionario di Edoardo Sanguineti è un omaggio a Dante. Dostoevskij era reazionario, eccome, ma è uno dei più profondi indagatori dell’animo umano di tutti i tempi. Si può discutere se fossero più reazionari o più progressisti De Amicis o Collodi, Leopardi o Pascoli Pirandello o Montale. Ma mi pare stupido chiedersi se fossero di destra o di sinistra Borges, o Tolkien, o Simenon. E allora perché non chiederselo per Kafka? Va bene, io non sopporto Ezra Pound e Cèline. Ma non c’entra, ve l’assicuro, con la loro collocazione politica. C’entra con il rispetto o meno dell’umanità, intesa come essere umani. Rodari, era comunista, quando essere comunisti significava anche credere nell’Unione sovietica. Diventò lo scrittore italiano di libri per ragazzi più famoso in Unione sovietica. Molto più famoso di quanto lo sia mai stato in Italia. Ma non era cieco e orbo, e arrivò a capire – come non lo furono molti altri da Berlinguer in giù (non tutti però) – che quel sistema non avrebbe retto, non aveva futuro, non aveva più molto a che fare con le ragioni per cui lui e milioni di altri avevano militato, sostenuto, votato, rispettato il Pci. Lo disse anche, a modo suo: “Io non vi farò la lezione / Non dirò al russo che ha pagato per me / Che nella sua rivoluzione mancava qualcosa / Anch’io sono comunista / Tale mi chiamo per dare un nome alla speranza”.

 

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Rodari era un mago della fantasia, un giocoliere delle parole, un maestro dell’ironia paradossale. Cercava di guardare il mondo con gli occhi dei bambini. In una conferenza al Teatro Carignano di Torino, che poi intitolò Quel che i bambini possono insegnare agli adulti, disse: “Come scrittore, ho imparato da loro il coraggio della fantasia [perché] loro è l’ottimismo della specie”. Grande prova di ottimismo, perché i bambini, come il popolo, possono talvolta combinare guai, essere feroci, e persino crudeli. La cosa su cui non ci piove è che per risolvere problemi a prima vista intrattabili (il Covid, il come far quadrare il cerchio tra efficienza e democrazia, il come salvare la capra della salute del pianeta e i cavoli della crescita), ci vuole un sacco di fantasia, è necessario inventare cose nuove. Piedi per terra, sì, ma anche fantasia, magari un pizzico di utopia. Certo Rodari non era solo uno scrittore per l’infanzia. I veri grandi scrittori di libri per l’infanzia sono quelli che sono capaci di dire qualcosa anche, mi verrebbe da dire soprattutto, agli adulti. Le favole, anche quelle che raccontiamo ai bambini, non sono roba solo per bambini, anzi spesso non sono affatto adatte ai bambini. Quanti grandi libri, quanti classici, sono stati rovinati per il fatto di essere stati ridotti a libri per l’infanzia? Rodari dà il meglio di sé quando gioca: gioca con le filastrocche, gioca con i non-sense, gioca con le parole. Ci gioca come fa Prèvert, come ci giocano i poeti dell’Oulipo, o come Edward Lear gioca con i Nonsense. A volte il gioco appare fine a sé stesso. E forse è anche come appare. Ma Rodari chiede ai suoi lettori di non fermarsi all’apparenza: “Vi sono allusioni a questioni del nostro mondo e del nostro tempo, alcune scoperte, alcune nascoste, sepolte in profondità sotto le parole. Chi avrà voglia di scavare un po’ le troverà senza sudare, perché a scavare sotto le parole si fa molto meno fatica che scavare gallerie sotto le montagne, o a zappare la terra. Chi non ha voglia di significati nascosti è libero di trascurarli e non perde nulla…”.

 

 

“Lo consolava la matematica degli insiemi. / Riflettendo sui suoi casi facilmente scopriva / Di fare parte di numerosi insieme così catalogabili: / l’insieme degli uomini nati nel 1920, / l’insieme degli uomini nati nel 1920 tuttora viventi, / l’insieme di tutti i nati, / l’insieme di tutti i mancini, / l’insieme degli epatopatici, / l’insieme degli addetti al commercio, / l’insieme degli addetti al lavoro, / l’insieme delle persone che portano l’orologio al polso, / l’insieme dei mammiferi, / l’insieme dei bipedi / […] Col tempo si rese conto, non senza un sentimento di orgoglio, / di essere un elemento di un insieme infinito, / qual è certamente e al di là di ogni meschino dubbio, / l’insieme degli uomini reali e degli uomini immaginari…”.

 

Così scrive nel 1968 su Il Caffè, l’anno in cui, certamente per puro caso, per le strade di Parigi si fantasticava di “fantasia al potere”, io studiavo con Ludovico Geymonat e Corrado Mangione le teorie degli insiemi. Fummo interrotti dal movimento studentesco.

 

“L’uomo […] è essenzialmente un animale che fa ridere”, sosteneva Rodari. Il guaio di molta satira dei nostri giorni non è che offende questo o quell’altro. E’ che non fa ridere. Rodari invece riesce a far ridere anche quando fa il comiziante. Ed è a suo agio nell’insieme di tutti quelli che hanno il senso dell’ironia e sanno anche far fanno ridere, persino quelli che si collocano sulla parte opposta della barricata, persino Guareschi, persino, udite udite, Montanelli. Sentite il garbo con cui risponde, durante una campagna elettorale del 1960 allo slogan “Guarda i fatti e vota Dc”: “Elettore, siamo giusti, / tutti i gusti sono gusti: / c’è chi guarda la passante, / c’è chi guarda il comandante, / e tra i tanti c’è anche chi /  Guarda i fatti e vota Dc /  […] C’è chi guarda Monte Mario, / dove ormai cala il sipario, / perché c’è l’immobiliare / che un hotel ci fa piazzare. / Poi, giacché ci ha gli occhi lì / guarda i matti e vota Dc”.

 

 

Come tutti i profeti, Gianni Rodari non sempre fu apprezzato in patria, o in famiglia che dir si voglia. Era un militante modello, entusiasta e convinto, persino obbediente, ma non sempre piaceva al suo partito, il Pci. Era un grande giornalista, ma non sempre fece carriera nei giornali in cui lavorava e talvolta dirigeva. Divenne famoso non grazie ai giornali del suo partito, ma grazie a un editore geniale e indipendente, Giulio Einaudi, uno che pubblicava cose di sinistra, ma seppe anche imporre, contro il parere di alcuni dei suoi più stretti collaboratori, la pubblicazione dei Mussolini di Renzo De Felice, che a molti storici di sinistra non piacevano affatto. Einaudi però aveva un difetto, che si evince dalle lettere di Rodari, che pure aveva nei confronti del suo editore enorme rispetto e riconoscenza: pagava poco e male. Il pubblico lo premiava. In Russia lo adoravano, forse anche perché la letteratura per l’infanzia lì era, accanto alla fantascienza, uno dei pochi settori in cui chi aveva qualcosa da dire riusciva a sfogarsi.

 

Era su molti temi avanti anni luce sul Pci ufficiale. Mal glie ne incolse, ad esempio, quando, da direttore del Pioniere a fine anni ’40 e primi anni ’50 insisteva giustamente sull’importanza dei fumetti e altre forme popolari di espressione. Per il Pci di allora i fumetti erano invece considerati tipica espressione dell’“americanismo”, della sottocultura imperialista (curiosamente, ancor più antiamericanista era stata la cultura fascista). Ci caddero in molti. Lo diceva Enrico Berlinguer nel 1948 a Torino, lo scriveva Gian Carlo Pajetta su Gioventù nuova, lo ribadiva Lucio Lombardo Radice, al ritorno da un viaggio in Urss nel 1951: lì niente fumetti, quindi non si capisce perché se ne debbano avere sulla stampa comunista in Italia: “Neppure una copia di quei giornalacci che abituano alla fantasticheria malsana, quel ‘veleno americano’ che circola liberamente da noi”. A un certo punto era intervenuta pesantemente Nilde Iotti, con un articolo su Rinascita intitolato “Sulla Questione dei fumetti” nel quale attribuiva a questi “strumenti del capitalismo”, diffusi in un’America decadente e corrotta, la colpa di distogliere le menti dei giovani dalla lettura e dal ragionamento, rendendole più animalesche e inclini alla violenza. Rodari aveva reagito, con una lettera al direttore, guardandosi bene dal dire che si trattava di sciocchezze, limitandosi a sostenere che “se si vuole parlare ai ragazzi e ai giovanotti bisogna tenere conto del linguaggio a cui sono abituati” e che comunque “ci possono essere fumetti diversi da quelli americani”. Il direttore di Rinascita, Palmiro Togliatti, era intervenuto, sullo stesso numero, con un rapida postilla per chiudere il dibattito, dando ragione alla Iotti. Il che però non impedì che Rodari continuasse a scrivere, e pubblicare, fumetti ed altro, anche sulla stampa comunista, per altri trent’anni. Posso rivelarvi una cosa: negli anni in cui altri andavano in Via Veneto, noi della redazione dell’Unità di Milano nei tempi morti guardavamo in tv Mazinga, Ufo Robot…

 

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