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il libro curato da Sabrina Minuzzi

Quando la stampa aiutò a debellare la peste e la peste aiutò a diffondere la stampa

Mariarosa Mancuso

Il ciclo virtuoso di affissioni e "fedi di sanità": così - nei lazzaretti, senza vaccini e un falò per amuchina - i veneziani combattevano la pandemia che fu

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Il tempo è strano, lo sono anche gli instant book. Solo un anno fa, un libro come “La peste e la stampa” sarebbe andato in mano solo agli studiosi di storia veneziana, specializzazione XVI e XVII secolo. Cronache cittadine e del contado, su una tragedia che si pensava scomparsa, perlomeno nel primo mondo. Ricordate, no, quando stavamo a fare i calcoli nel segreto nella cameretta? Niente fumo, niente grassi, niente alcol, niente zucchero: ognuno aveva la sua bella percentuale di riduzione del rischio di ammalarsi, che in base al pensiero magico si sommava alle altre. Fatto cento si era immortali. Oggi “La peste e la stampa” (curato da Sabrina Minuzzi e stampato lo scorso Natale da Marsilio in “1100 copie non venali”, quindi ringraziamo per l’omaggio) è una curiosa lettura sulle epidemie che furono.

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Il tempo è strano, lo sono anche gli instant book. Solo un anno fa, un libro come “La peste e la stampa” sarebbe andato in mano solo agli studiosi di storia veneziana, specializzazione XVI e XVII secolo. Cronache cittadine e del contado, su una tragedia che si pensava scomparsa, perlomeno nel primo mondo. Ricordate, no, quando stavamo a fare i calcoli nel segreto nella cameretta? Niente fumo, niente grassi, niente alcol, niente zucchero: ognuno aveva la sua bella percentuale di riduzione del rischio di ammalarsi, che in base al pensiero magico si sommava alle altre. Fatto cento si era immortali. Oggi “La peste e la stampa” (curato da Sabrina Minuzzi e stampato lo scorso Natale da Marsilio in “1100 copie non venali”, quindi ringraziamo per l’omaggio) è una curiosa lettura sulle epidemie che furono.

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E che – a parte il benedetto vaccino per cui non finiremo mai di essere grati alla scienza, pronti a offrire il braccino e prima sarà meglio è – i rimedi di allora erano gli stessi di adesso. Cordoni sanitari (per esempio attorno alle regioni), quarantene, disinfezione di case e cose, e certificati – dette “fedi di sanità”. Li rilasciavano a prezzo modico i provveditori alla salute pubblica, descrivendo sommariamente il titolare, ma circolavano molti falsi. Erano diffusi solo nell’Italia del nord, Venezia-Milano-Genova-Firenze. Agli occhi dei viaggiatori stranieri sembravano un modo per spillar soldi (il fiorino chiesto e richiesto nel film con Massimo Troisi e Roberto Benigni “Non ci resta che piangere”) o per tenere sotto controllo gli scambi commerciali.

 

La disinfezione migliore era un bel rogo, ma per non dover ricomprare ogni volta mobili e suppellettili (in un mondo peraltro senza Ikea) furono escogitati metodi meno invasivi. Si andava di fumigazioni o di profumi come l’incenso e la mirra. Le legature dei libri (intesi come libri contabili) venivano scucite e rifatte con spago nuovo. Vestiti, tessuti, lane di coperte e di materassi si potevano bollire – quattro bollori almeno, poi raffreddati e messi ad asciugare. C’era il metodo del “sabbion”, per le cose di pregio come rasi, sete, ricami tappeti, arazzi: una sorta di pulizia a secco, strati di sabbia e riposo per quattro giorni e quattro notti. Per la roba andante, acqua e sale.

 

 

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L’accoppiata tra peste e stampa – ovvia oggi, resta da compilare un dizionarietto della neolingua introdotta dagli inviati con mascherina, bastone per selfie per reggere il microfono oppure Skype per evitare pericolosi contatti – tra Cinque e Seicento voleva dire due cose, scrive Sabrina Minuzzi. La peste spinge la stampa, soprattutto quella per usi civici, a cominciare dalle affissioni. La stampa aiuta a sconfiggere la peste, con editti sui comportamenti per evitare il pericolo. Chi poteva, munito della sua “fede di sanità”, se ne andava verso più salubri luoghi. I benestanti si ritiravano nelle case di campagna per evitare occasioni di contagio, i poveri morivano in città (fanno fede i registri mortuari). Se ne scappavano anche i funzionari, con gravi danni per la gestione della città di Venezia.

 

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Va da sé che le botteghe erano chiuse, il volumetto riproduce una raccolta dei “più belli e bizari motti che si sono veduti scritti sopra le botteghe serrate di Venezia” (con aggiunte manoscritte a fondo pagina, per la seconda edizione). Ricette per l’automedicazione non ne mancavano, compilate dalla “medichessa Mariella Colochi” che aiutava il marito dottore al Lazzaretto di Venezia. A Padova si lamentavano le cortigiane, in versi: “Non c’è alcuno che più ci dia guadagno / Li Padovani scarsi non spendono un quatrino”. Manca un lamento ufficiale corrispondente, per il coronavirus, e neanche sono previsti ristori per la categoria.

 

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