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Le zone invalicabili della Russia e i suoi cinocefali, che sono bestie a metà

Micol Flammini

Nel romanzo di Aleksej Ivanov c’è un villaggio dimenticato dal passato e ferito dal presente, dove le ruggini dell’Unione sovietica e del Cremlino di Putin si rincorrono

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Nel villaggio di Kalitino, che fa da sfondo al romanzo di Aleksej Ivanov “I cinocefali” (Voland), è rimasto ben poco di umano. I suoi abitanti si comportano come animali, forse si trasformano anche in animali. La villa del riccone locale è piena di decorazioni che rimandano al mondo ferino e chi invece cerca di fuggire da tanta bestialità, di allontanarsi, di umanizzarsi, muore o perde la parola. Nel villaggio di Kalitino tutto è ridotto a bisogno essenziale, non esiste nulla di elevato, non esistono ragionamenti, ma soltanto pulsioni e dogmi. I suoi abitanti parlano, si picchiano, litigano, lavorano, credono, e in tutte queste azioni sembrano ossessionati o schiavizzati dalla ricerca del brutto, del gretto, dell’inumano. E’ questo il mondo che appare ai tre moscoviti Kirill, Guger e Valerij, che arrivano per prelevare un’icona che ritrae San Cristoforo con la testa di cane: il primo dei cinocefali. I tre arrivano a bordo di un pulmino Mercedes scintillante e già questo ingresso rumoroso sembra una violazione di quello spazio immobile, arrugginito, immerso nel caldo torrido del giorno, nell’umidità spettrale della notte e nei fumi che si alzano dalle torbiere. A Kalitino tutto è una violazione, anche il sesso, anche la religione. Appena arrivati i tre si rendono conto che la chiesa con il prezioso affresco aveva smesso da tempo di essere un luogo di culto, si era trasformata in un’officina. E di per sé nulla di strano, nell’epoca sovietica le chiese erano diventate piscine o musei dell’ateismo. Ma la Russia in cui il romanzo è ambientato è quella di oggi, con Vladimir Putin al Cremlino e con la religione che è diventata una delle colonne portanti del potere del presidente. Il villaggio, lungo il fiume Kerzhenec, tutto questo non lo sa. O meglio, di questo non se ne è mai interessato, non si è accorto del tempo che mutava e che lo abbandonava, è un monumento doloroso del passato, che sa che esiste un mondo diverso, una Russia diversa, ma non vuole conoscerla.

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Nel villaggio di Kalitino, che fa da sfondo al romanzo di Aleksej Ivanov “I cinocefali” (Voland), è rimasto ben poco di umano. I suoi abitanti si comportano come animali, forse si trasformano anche in animali. La villa del riccone locale è piena di decorazioni che rimandano al mondo ferino e chi invece cerca di fuggire da tanta bestialità, di allontanarsi, di umanizzarsi, muore o perde la parola. Nel villaggio di Kalitino tutto è ridotto a bisogno essenziale, non esiste nulla di elevato, non esistono ragionamenti, ma soltanto pulsioni e dogmi. I suoi abitanti parlano, si picchiano, litigano, lavorano, credono, e in tutte queste azioni sembrano ossessionati o schiavizzati dalla ricerca del brutto, del gretto, dell’inumano. E’ questo il mondo che appare ai tre moscoviti Kirill, Guger e Valerij, che arrivano per prelevare un’icona che ritrae San Cristoforo con la testa di cane: il primo dei cinocefali. I tre arrivano a bordo di un pulmino Mercedes scintillante e già questo ingresso rumoroso sembra una violazione di quello spazio immobile, arrugginito, immerso nel caldo torrido del giorno, nell’umidità spettrale della notte e nei fumi che si alzano dalle torbiere. A Kalitino tutto è una violazione, anche il sesso, anche la religione. Appena arrivati i tre si rendono conto che la chiesa con il prezioso affresco aveva smesso da tempo di essere un luogo di culto, si era trasformata in un’officina. E di per sé nulla di strano, nell’epoca sovietica le chiese erano diventate piscine o musei dell’ateismo. Ma la Russia in cui il romanzo è ambientato è quella di oggi, con Vladimir Putin al Cremlino e con la religione che è diventata una delle colonne portanti del potere del presidente. Il villaggio, lungo il fiume Kerzhenec, tutto questo non lo sa. O meglio, di questo non se ne è mai interessato, non si è accorto del tempo che mutava e che lo abbandonava, è un monumento doloroso del passato, che sa che esiste un mondo diverso, una Russia diversa, ma non vuole conoscerla.

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Quando i tre arrivano a Kalitino sono visti come intrusi, come ricchi moscoviti venuti a mostrare il benessere della capitale, che non è Russia, ma un universo a parte. Gli abitanti del villaggio non vogliono fare amicizia, ma vogliono soltanto spillar loro soldi, sigarette. Vogliono, pretendono, rubano, rovinano sfacciatamente. “Tu non prenderci niente”, dice una degli abitanti a Kirill, il protagonista inconsapevole del romanzo, che da quel mondo esce  trasformato. Kirill non ascolta il consiglio, Kirill prende. 

 

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Nel vagabondare per il villaggio il protagonista finisce quasi per assomigliare ai locali, nella sua ricerca smarrisce i confini e Kalitino sembra essergli entrato in testa, nel corpo, nelle parole: entra nella zona e rischia di rimanerci intrappolato. Nel gergo criminale la zona è, come spiega la traduttrice Anna Zafesova nelle note, un campo di lavoro, un lager. Ma la zona, questa Kalitino arrugginita e volgare, richiama alla mente per contrasto l’altra Zona, quella che Tarkovskij, nel film Stalker, elegge  a metafora del proibito, il posto dannato del desiderio, della libertà messa dietro al filo spinato. La zona in bianco e nero del regista russo, alla quale si accedeva clandestinamente, poteva uccidere: respirava, si offendeva, puniva. Ne “I cinocefali” le zone si raddoppiano e una è inaccessibile all’altra. C’è Kalitino con i suoi personaggi umani a metà, c’è Mosca, la Mosca capitale e la Mosca che si portano dentro Kirill, Guger e Valerij, che hanno stampata addosso con il loro modo di parlare, di pensare, di camminare, di vestirsi. Uscire dalla zona equivale a un tradimento, è tra una zona e l’altra, tra il mito sfatato della purezza della Russia rurale e l’essere moscovita che si palesa il cinocefalo. 

 

I cinocefali sono guardie di confine, secondini, non lasciano uscire e non lasciano passare da una zona all’altra, sono visioni horror e topoi culturali, sono la religione e la storia. Nelle sue ricerche Kirill scopre che il primo dei cinocefali è stato proprio San Cristoforo, quello che lui e i suoi compagni avrebbero voluto portare via da Kalitino. Sono figure mitiche e sacre, sono i custodi della scisma, della purezza religiosa dei “vecchi credenti” andati a vivere negli eremi sperduti. La Russia, quella nazione grandissima in cui le generazioni si susseguono archiviando il passato, in cui l’architettura neppure sembra fatta per rimanere – l’Europa ha costruito i suoi monumenti in pietra, la Russia in legno, nota Kirill  – in cui tutto si accatasta, si somma ma senza dare risultati, in cui il passato non diventa mai memoria ma è un’invenzione del presente, è lo scenario e la protagonista del romanzo di Ivanov. La Russia è  Kirill, è Liza che vorrebbe parlare ma ha perso le parole, è l’ubriacone, il detenuto, il signorotto. E’ il cinocefalo, che è un mostro, un pensiero, è la storia, è un esperimento, è il potere, è un monito: non si esce dalla zona, non si cambia la zona. Di tutte queste zone, impermeabili, invalicabili, intradibili, è fatta la Russia. 
 

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