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La guerra dei social network alle fake news non sta andando troppo bene

Simonetta Sciandivasci

Le piattaforme si sono responsabilizzate ma il risultato è ancora insufficiente. Il repulisti sembra non bastare

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Una delle cose su cui fondavamo la certezza di uscirne migliori, un anno fa, era la scomparsa delle fake news, che davamo per scontata insieme a quella dei no vax. Eravamo così paralizzati e smarriti dalla pandemia che pensavamo che tutti avremmo rivoluto solo e soltanto le vecchie certezze, i vocabolari, la medicina tradizionale, gli esperti. Pensavamo che il passaggio dal sentirci in pericolo all’essere in pericolo ci avrebbe riportati all’essenziale. Invece, le fake news hanno dilagato e i no vax stanno rappresentando una delle minacce all’efficacia della campagna vaccinale.

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Una delle cose su cui fondavamo la certezza di uscirne migliori, un anno fa, era la scomparsa delle fake news, che davamo per scontata insieme a quella dei no vax. Eravamo così paralizzati e smarriti dalla pandemia che pensavamo che tutti avremmo rivoluto solo e soltanto le vecchie certezze, i vocabolari, la medicina tradizionale, gli esperti. Pensavamo che il passaggio dal sentirci in pericolo all’essere in pericolo ci avrebbe riportati all’essenziale. Invece, le fake news hanno dilagato e i no vax stanno rappresentando una delle minacce all’efficacia della campagna vaccinale.

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L’Atlantic ha scritto che quello trascorso è stato l’anno che ha cambiato Internet ed è indubitabile: i social network hanno deciso di contrastare la cattiva informazione, di censurare i negazionisti dell’Olocausto, di rimuovere i contenuti ascientifici sul vaccino, di aumentare il personale preposto alla moderazione di tutti i contenuti (allo stesso scopo, molte società hanno cominciato a far uso dell’intelligenza artificiale). Tutte cose che, qualche anno fa, erano impensabili perché, prima ancora che compromettenti, rischiavano di risultare controproducenti: le piattaforme erano consapevoli del fatto che i propri utenti esigevano lo spazio di libertà assoluta che altrove non trovavano. A parte blandi tentativi di contrasto dell’odio e grottesche censure delle immagini erotiche, Facebook e Twitter hanno fatto da cassa di risonanza per millantatori, violenti, mitomani d’ogni genere e grado: parallelamente, gli atteggiamenti realmente censori, giudicanti, inibenti, giustizialisti di molti utenti, proprio sui social hanno trovato sistematizzazione e organicità. Le carriere e, in certi casi, le vite intere di certi uomini sono state compromesse da niente più che hashtag. Il Covid ha imposto una stretta, se non alle indignazioni, alla cattiva informazione: a dicembre, Facebook ha annunciato che rimuoverà tutti i contenuti falsi sui vaccini anti Covid, che siano articoli, video o semplici status, e così faranno anche Tik Tok e YouTube. Qualcosa di simile è stato fatto anche per QAnon, il movimento complottista che predica sostegno a Trump ritenendolo osteggiato dalle forze del male.

 

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QAnon è nato su un forum, 4chan, frequentato dagli estremisti di destra americani. Anche incel e antivaccinisti e pedofili e venditori di armi s’incontrano e influenzano sulle centinaia di piattaforme alternative ai social che prosperano in rete, e non soltanto nel darkweb, indisturbate. In questo senso, ciò che osserva l’Atlantic è importante: i social network si sono responsabilizzati per non finire nello stesso orripilante calderone di quest’universo parallelo, continuamente in espansione, più che per un risveglio di nobile civismo. Questa differenza lascerebbe il tempo che trova visto che, in fondo, è il risultato quello che conta, se non fosse che è proprio il risultato a essere insufficiente – l’aumento delle fake news è una delle prove, insieme anche all’aumento dei crimini virtuali (revenge porn, stalking, diffamazioni).

   

Se il 2020 ha cambiato internet nel senso di aver avviato una transizione verso la formulazione di un modello responsabile, il cui primo passo è il repulisti, possiamo sperare che si tratti di un cambiamento positivo, tuttavia dall’esito molto lontano. Fermarsi al repulisti, invece, non risulterebbe efficace. “La riduzione dell’offerta di disinformazione non elimina la domanda”, ha scritto Renée DiResta. Il modo in cui gli influencer, durante la pandemia, hanno non solo ridotto le frivolezze ma usato la loro popolarità per condividere contenuti utili alla sensibilizzazione degli utenti, potrebbe tracciare il secondo capitolo di questo nuovo corso. Sarà interessante osservare se alcuni mezzi hanno perso influenza, e perché, e se quell’influenza s’è spostata altrove. All’esordio di TikTok, il New York Times scrisse che, probabilmente, avrebbe superato Instagram e che, trattandosi di un generatore di contenuti brevi che avevano per lo più lo scopo di intrattenere, i social network avrebbero avuto un peso diverso nell’elaborazione della verità dell’informazione. Tuttavia, quest’anno, molti giornali hanno aperto un account su TikTok.

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