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Gioco a nascondere sulle nostre paure

Nadia Terranova

Saggi e romanzi su una guerra alle donne che inizia con l’Inquisizione. La superstizione e il desiderio di controllo dell’uomo. Dai sabba spagnoli alla tradizione siciliana, dove sul sortilegio si fonda la politica

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C’è un paese, Vallescura, ai piedi di montagne che chiudono e separano, difendono e condannano, isolano e amplificano. E c’è una comunità rinata dopo l’epidemia sterminatrice di un secolo prima, della cui rinascita si è autoproclamata custode una donna, Saretta, assumendo una postura ringhiosa e missionaria: con ogni atomo del suo corpo – cento chili, a dispetto del nome – ha giurato di proteggere luoghi e abitanti dalla possibilità che il disastro possa riaccadere. Ma la peste, ci avverte Loredana Lipperini, autrice di uno dei romanzi più sorprendenti e intensi di questo 2020, “fa parte della nostra storia e, per quanto cambi il mondo, difficilmente mutano le nostre reazioni”: oggi come ieri, al primo avviso di epidemia, si cerca il colpevole. Chi ha portato la malattia deve essere individuato, additato, annientato, solo così la comunità potrà sentire un ristoro alla propria febbre: è più che un automatismo, è un esorcismo necessario, poco importa che nelle malattie non ci sia colpa, una colpa va trovata. L’untore viene deciso secondo criteri precisi, accordati a schemi classici: “Il paese che espelle o distrugge chi non lo rende omogeneo, presentabile, quieto. I matti, gli ubriaconi, i tossici. Se ne vanno o crepano, quel che conta è mostrarsi uniti, festeggiare l’autunno con la castagnata e il vino rosso, ammirare tutti insieme le luminarie di Natale, partecipare – tutti, mi raccomando – al presepe vivente, cucinare per la cena estiva. Una due, dieci cene estive fino a spaccarsi il cuore di cibo”. 

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C’è un paese, Vallescura, ai piedi di montagne che chiudono e separano, difendono e condannano, isolano e amplificano. E c’è una comunità rinata dopo l’epidemia sterminatrice di un secolo prima, della cui rinascita si è autoproclamata custode una donna, Saretta, assumendo una postura ringhiosa e missionaria: con ogni atomo del suo corpo – cento chili, a dispetto del nome – ha giurato di proteggere luoghi e abitanti dalla possibilità che il disastro possa riaccadere. Ma la peste, ci avverte Loredana Lipperini, autrice di uno dei romanzi più sorprendenti e intensi di questo 2020, “fa parte della nostra storia e, per quanto cambi il mondo, difficilmente mutano le nostre reazioni”: oggi come ieri, al primo avviso di epidemia, si cerca il colpevole. Chi ha portato la malattia deve essere individuato, additato, annientato, solo così la comunità potrà sentire un ristoro alla propria febbre: è più che un automatismo, è un esorcismo necessario, poco importa che nelle malattie non ci sia colpa, una colpa va trovata. L’untore viene deciso secondo criteri precisi, accordati a schemi classici: “Il paese che espelle o distrugge chi non lo rende omogeneo, presentabile, quieto. I matti, gli ubriaconi, i tossici. Se ne vanno o crepano, quel che conta è mostrarsi uniti, festeggiare l’autunno con la castagnata e il vino rosso, ammirare tutti insieme le luminarie di Natale, partecipare – tutti, mi raccomando – al presepe vivente, cucinare per la cena estiva. Una due, dieci cene estive fino a spaccarsi il cuore di cibo”. 

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Se leggendo queste righe state pensando alle festività incipienti, all’ultimo decreto, alla furia estetizzante con cui gli italiani hanno reclamato il diritto al panettone in famiglia a dispetto del raziocinio e del numero dei contagi, sappiate che La notte si avvicina (Bompiani) è nato quattro anni fa a Lampedusa (un’isola contemporanea di reietti, di isolamento e di espulsioni: appunto) e per molto tempo scritto e meditato: le risposte ai tempi che viviamo vengono dai romanzi e non dagli instant book, dalla perseveranza della finzione e non dal dispositivo del commento scattante e quotidiano. Le risposte durevoli non sono arguzie, ma lente stratificazioni.

   

La letteratura gotica, purtroppo poco praticata in Italia, è ovunque superbamente interpretata dalle donne, dalla siciliana Chiara Palazzolo alla maestra americana Shirley Jackson. Lipperini l’aveva già lambita con il romanzo precedente, L’arrivo di Saturno, e con i racconti di Magia nera, ma qui entra pienamente nel genere, tra fantasmi che parlano e streghe da additare, ovvero donne guardate con sospetto soprattutto dalle altre donne. Saretta, la Grande Madre che indossa la propria mostruosità come una corazza unica e ostile, individua la portatrice di male in Maria, straniera arrivata a Vallescura per trovare rifugio dalla maledizione che un’altra comunità di umani avvelenati ha lanciato su di lei. Non c’è niente di più feroce di una madre che giudica un’altra madre, e qui c’è una madre di tutti che sentenzia su una che non può più essere madre di nessuno. Non c’è compassione possibile nella marginalità femminile, gli equilibri di poteri e sospetti rendono le donne di Lipperini incapaci di fare rete, tese a cercare nelle loro simili vittime sacrificali per purificare il paese e non guardare mai dentro sé: sono le donne a punire le altre donne, giudicandole inadeguate o pericolose, chiedendone giustizia in quanto untrici, avversandole perché provocano, sobillano l’ordine costituito.

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Streghe che si indeboliscono a vicenda in nome di una sicurezza fondata sullo spavento, e perciò fragile, come fragile è il nostro misterioso passaggio terreno, la finitezza da cui nessuna gogna può salvarci. “Stella stellina / la notte si avvicina” recita la filastrocca che dà il titolo al romanzo, una filastrocca che tutti abbiamo recitato nell’infanzia, per cullarci, anche se pochi conoscono il nome della sua autrice: Lina Schwarz, poetessa e traduttrice ebrea che dall’Italia dovette fuggire in Svizzera in seguito alle leggi razziali: un’altra storia di rogo e persecuzione. Ma che radici ha la complicità femminile nella caccia alle streghe? 

  

Silvia Federici cita le tremila donne esiliate nei “campi per streghe” del nord del Ghana. La persecuzione post coloniale

 
E’ la filosofa Silvia Federici, in un saggio da poco uscito per Nero edizioni, Caccia alle streghe, guerra alle donne, a fare il punto sul processo istituito e sistematizzato dall’Inquisizione: dietro il paravento della superstizione si stabilivano precise mire, che presto diventarono anche economiche. Far fuori mendicanti e guaritrici diventò una forma di pulizia collettiva. “Attraverso la caccia alle streghe”, scrive Federici, “venne introdotto un nuovo codice etico e sociale che rendeva sospetta ogni fonte di potere indipendente dallo Stato e dalla Chiesa, introducendo la paura dell’inferno e cioè la paura del male assoluto sulla Terra. L’idea che la donna fosse l’incarnazione del diavolo avrebbe avuto delle profonde conseguenze per la condizione femminile nel mondo capitalista – un mondo che la caccia alle streghe contribuì a edificare”. E, per evitare una resistenza compatta, cominciò a essere instillata l’idea che per salvare sé stesse bisognava denunciare le altre: “La caccia alle streghe divise le donne. Insegnò loro che diventando complici della persecuzione e accettando la leadership maschile si sarebbero potute togliere dal cappio o dal rogo. Insegnò loro, più di ogni altra cosa, ad accettare il posto che veniva loro assegnato nella nascente società capitalista, poiché una volta accreditata l’ipotesi che le donne potessero convertirsi in aiutanti del Diavolo, il sospetto di stregoneria le avrebbe accompagnate in ogni momento della vita”. 

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Il legame tra stregoneria e marginalità sociale era già stato approfondito in Calibano e la strega (Mimesis edizioni), qui Federici riprende la sua tesi rendendola più fruibile (Caccia alle streghe, guerra alle donne consta di poche pagine, è un piccolo, agile saggio) e soprattutto aggiornata, non essendo quella paura finita con il Medioevo. Secondo Federici, “in tutte le sue diverse forme, la caccia alle streghe è anche un potente mezzo per distruggere le relazioni comunitarie, perché inocula il sospetto che dietro alla vicina, all’amica o all’amante si celi un’altra persona, animata da un ardente desiderio di potere, sesso e ricchezza, o semplicemente dal desiderio di commettere azioni malvagie”. Mantenere la memoria della persecuzione significa darci la possibilità di sentire quando la paura viene instillata dentro di noi, e – forse – imparare a prevenirne l’insorgere. Come insegnano questi libri, la persecuzione della stregoneria è tutt’altro che un ricordo: ma chi sono le streghe, oggi? Mona Chollet, caporedattrice di Le Monde diplomatique e collaboratrice di Charlie Hebdo, ha scritto una disamina, pubblicata in Italia da Utet nella traduzione di Eleonora Marangoni, intitolata Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medioevali a #MeToo: si va dalle istruzioni scrupolosamente seguite del Malleus Maleficarum nel 1487 agli incantesimi lanciati ai giorni nostri contro Donald Trump. Ma la contemporaneità non è solo folclore: difficile crederci, ma di caccia alle streghe si muore ancora.

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Silvia Federici cita le tremila donne esiliate nei “campi per streghe” del Nord del Ghana, e descrive i movimenti di potere nella società africana, il cui sistema di credenze viene raccontato come arcaico ma in realtà è stato risvegliato e utilizzato dall’era coloniale. “Prima della colonizzazione”, scrive, “le streghe venivano talvolta punite ma raramente uccise. In effetti, è persino dubbio che si possa parlare di stregoneria quando il riferimento è all’era precoloniale, visto che il termine non è stato usato fino all’arrivo degli europei”. Tra il 1991 e il 2001, con il compiacente appoggio delle forze di polizia, in Africa sono state uccise ventitremila donne ritenute streghe, e la cifra è sottostimata. India, Nepal e Papua Nuova Guinea sono sulla stessa strada: in tutti questi paesi gruppi di sedicenti giustizieri organizzano sistematiche spedizioni punitive che spesso si concludono con l’uccisione della strega e sempre con la confisca dei suoi beni. La macchina della paura innesca una conflittualità intergenerazionale difficilmente estirpabile e alimenta la diffidenza degli anziani contro i giovani e viceversa, mentre il conflitto diventa quotidiano, connaturato, fino a narcotizzare l’istinto di protesta delle altre, anche delle femministe, riducendole al silenzio o alla complicità. Anche Federici lega l’accanimento persecutorio alla devastazione lasciata dalle epidemie: in Africa, l’Aids aveva disintegrato un già fragile tessuto sociale. E intanto indica l’interdipendenza tra la creazione del terrore e il rafforzamento dei sistemi di controllo politico.

  

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Un tema, quest’ultimo, alla base di un romanzo tradotto da Laura Angeloni per Keller, uno di quegli editori che ci aiutano a essere meno anglocentrici, con le sue belle traduzioni dall’est Europa (furono loro a pubblicare per primi il futuro premio Nobel Herta Müller). Si intitola L’eredità delle dee e l’autrice, Katerina Tucková, racconta una storia intima e politica insieme, come sempre dovrebbero essere le saghe famigliari. La protagonista è Dora, giovane etnografa tirata su in un paesino di montana fra i Carpazi bianchi da una zia guaritrice, nella sua vita adulta ha messo da parte l’infanzia, ha studiato in collegio, si è laureata e conduce una vita normale. Quando, negli anni Novanta, dopo la caduta del regime comunista, vengono aperti gli archivi della polizia segreta, Dora riceve un messaggio e le si spalanca la possibilità di scoprire un aspetto della vita di Surmena che ignorava: negli elenchi delle persone invise al regime c’è il nome di sua zia. Un intero faldone è riservato a lei, alla sua vita privata, ai suoi poteri taumaturgici. La dittatura odiava Surmena, anche se non si faceva pagare per le sue prestazioni, la spiava e la perseguitava, e così faceva con tutte le guaritrici della Moravia meridionale, le cosiddette “dee dei Carpazi”.

  

Sempre per Keller è uscito un altro romanzo, Bottigliette, di Sophie Van Llewyn nella bella traduzione di Elvira Grassi, che di nuovo indica la magia come scappatoia dal regime: nella Romania degli anni Settanta, una giovane coppia si ritrova sotto osservazione per comportamenti sospetti, e la via d’uscita verrà da Theresa, di nuovo una zia, depositaria di antichi rituali. Soffermiamoci qui sulla descrizione di cosa accade nei boschi nella notte più corta dell’anno: “Sono una decina nella radura, spettrali silhouette nelle loro gonne e camicie bianche, con i loro gilet ricamati e collane di monete d’oro, o perlomeno così pare dal cespuglio dietro il quale Alina sta nascosta. Potrebbero essere delle giovani contadine, per quanto ne sa lei, benché i loro canti siano in una lingua che non ha mai sentito prima.  (…) Questa è una lingua a lungo dimenticata. Dimenticate sono le loro danze, dimenticati i loro saltelli, i loro ancheggiamenti, i cerchi che tracciano con i piedi, i loro volteggi e piroette. Si dispongono in cerchio e cominciano a vorticare, e vorticare, sempre più rapidamente, fino a che i loro contorni non sbiadiscono e la radura non diventa un quadro impressionistico di sé stessa…”. L’autrice sta descrivendo un raduno di seănziene, le fate rumene festeggiate il 24 giugno, e la sensazione che stia accadendo qualcosa di proibito, in quello spudorato spumeggiare dentro un regime, somiglia a ciò che Judith Butler definisce nel saggio L’alleanza dei corpi (nottetempo, traduzione di Federico Zappino), a proposito della performatività dell’azione collettiva. Scrive Butler che ciò che vediamo quando i corpi si radunano è l’esercizio del diritto di apparizione: ne parla a proposito delle manifestazioni di piazza, delle grandi dimostrazioni. Che dire, allora, di quando a esercitare questo diritto sono creature misteriose, cui il diritto all’esistenza è stato esplicitamente negato? Del resto, tutte le narrazioni di sabba fornite dalla letteratura e dal cinema sono straordinariamente performative.

   

Nei Benandanti di Carlo Ginzburg (Adelphi) se ne parla come di raduni onirici: “Già a metà del ’400 il teologo spagnolo Alfonso Tostado, commentando il Genesi, notava incidentalmente che le streghe spagnole, dopo aver pronunciato determinate parole, si spalmavano di unguenti e cadevano in un profondo sonno, che le rendeva insensibili perfino al fuoco o alle ferite; ma, risvegliate, asserivano di essersi recate in questo o quel luogo, magari lontanissimo, a convegno con altre compagne, banchettando o amoreggiando”. I benandanti erano gli appartenenti a piccole congreghe che si occupavano di tenere lontano il male dai territori fertili, nei campi friulani, armati di mazze di finocchio: nati per combattere la stregoneria, ne furono accusati essi stessi. La stregoneria ha molte incarnazioni, e si diverte perfino a incarnarsi nei suoi avversari.

   
In un incantevole libretto pubblicato dalla casa editrice Rossomalpelo, Streghe siciliane. Malleus Maleficarum siciliensum, in cui Lucia Pirrello cura la raccolta di alcuni scritti di Giuseppe Pitrè in merito a “fatti brutti, crudeli, scellerati” che riguardano le donne dell’isola, le istruzioni per diventare streghe sono chiarissime: la futura maliarda deve fare la quaresima del diavolo, cioè commettere un peccato mortale ogni giorno per quaranta giorni. Se le limitazioni da pandemia lo consentono e vi trovate nella capitale, per le festività potreste provare a convertirvi inginocchiandovi: “In Palermo un certo grado di potenza soprannaturale, sempre d’ordine stregatorio, si ottiene mettendosi ginocchioni in chiesa e, al momento dell’elevazione dell’ostia, masticando ed inghiottendo una fogliolina d’ulivo; e nel far ciò recitando un’orazione che noi profani non possiamo conoscere e che solo la notte di Natale, alla nascita del Bambino, è permesso di apprendere a chi vuole impararla. La facoltà che si conseguirà sarà limitata alle opere che il candidato o  la candidata ebbe desiderio o intenzione di compiere al momento del rito”. A Catania, invece, potreste mettervi sulle tracce della fattucchiera Petra, cui, sempre secondo il Pitrè, tutte le donne si rivolgevano, portandole suppliche e camicie di mariti fedifraghi. In tutti i casi, se dormite con una donna che due notti la settimana si assenta, non pensate a un banale tradimento, è probabile che stia compiendo un viaggio molto più interessante: “Vi sono streghe, e son quelle che hanno venduto l’anima al diavolo, le quali godono il privilegio di andare a visitar l’inferno e il purgatorio, il che si dice jiri c’ ‘u cursu; ci vanno due volte la settimana: il mercoledì e il sabato, sopra un montone nerissimo. L’anima si stacca dal corpo a mezzanotte preciso, rimanendo il corpo sul letto, stecchito come un cadavere”. 

  
Pitrè passa poi a elencare tutte le faccende in cui le streghe sono maestre, troppe perché possano restare oziose: “In generale, le operazioni più comuni delle maliarde sono: - far nascere in un uomo un amor forte, irresistibile per una donna che l’ama, e viceversa per mezzo di filtri, beveraggi, orazioni e scongiuri; - convertire l’amore in odio e l’odio in amore, e di istaccare una persona da una passione disonesta o onesta; - legare un uomo, cioè di renderlo inetto agli uffici di uomo e di marito; - render questo o quell’altro insanabilmente ammalato, o pazzo, o imbecille o crucciato di dolori sino a farlo morire; - ottenere o far ottenere certi favori particolari”. 

 
Come si vede, tutto l’impianto è costruito in modo che ogni problema dell’uomo, persino l’impotenza, derivi da una colpa delle donne, soprattutto di donne bizzarre, non accondiscendenti e irregolari, che possono esercitare un potere di morte sugli uomini e di attrazione sulle altre, che altrimenti resterebbero pure e sottomesse. Ma esiste davvero, tra le donne, questa distinzione tra streghe e non streghe, tra donne demoniache e donne angelicate? Torniamo così all’inizio del nostro viaggio, a quella zizzania sparsa per fini economici e politici. Le streghe sono vere donne, mezze donne, l’antitesi delle donne, donne in purezza? E’ una poesia di Anne Sexton (qui nella traduzione di Marina de Carneri) a dare la risposta definitiva: “Sono uscita, una strega posseduta / che caccia l’aria nera, più intrepida di notte / che sogna il male, ho fatto il mio dovere / al di sopra delle case normali, luce per luce: / creatura solitaria, con dodici dita, fuori di sé. / Una donna così non è una donna, del tutto. / Io sono stata come lei”. 

  

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