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a cento anni dalla morte

Il dilemma di come condurre sensatamente la nostra vita spiegato da Max Weber

Sergio Belardinelli

La modernità è "una notte polare di tenebra e stenti", da affrontare però con stoicismo e non con rimpianto delle antiche comunità: per valorizzare l'eredità del sociologo tedesco occorre rimettere al centro le relazioni educative e la ricchezza morale che queste coltivano

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Uno degli aspetti che ho sempre ammirato in Max Weber è la sua consapevolezza dei profondi cambiamenti intervenuti in epoca moderna in ordine ai valori e alla condotta di vita delle persone, e nel contempo una sorta di preoccupazione che tali cambiamenti “inevitabili” potessero diventare anche “molesti” (sono parole weberiane). La liberazione dalle superstizioni del mondo antico e dai dogmi religiosi grazie alla razionalità scientifica; il crollo della certezza che la vastità infinita dell’universo dipenda da un piano preesistente come risultava nel platonismo o nella dottrina cristiana della creazione; il sogno di un mondo umano ben ordinato sotto la giurisdizione di una politica finalmente emancipata da queste superstizioni; tutto questo, agli occhi di Weber, è soltanto un lato della faccenda. Sotto questo “disincanto” può celarsi infatti anche un lato negativo, diciamo pure, la sensazione di aver perduto qualcosa e un lacerante senso di vuoto.

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Uno degli aspetti che ho sempre ammirato in Max Weber è la sua consapevolezza dei profondi cambiamenti intervenuti in epoca moderna in ordine ai valori e alla condotta di vita delle persone, e nel contempo una sorta di preoccupazione che tali cambiamenti “inevitabili” potessero diventare anche “molesti” (sono parole weberiane). La liberazione dalle superstizioni del mondo antico e dai dogmi religiosi grazie alla razionalità scientifica; il crollo della certezza che la vastità infinita dell’universo dipenda da un piano preesistente come risultava nel platonismo o nella dottrina cristiana della creazione; il sogno di un mondo umano ben ordinato sotto la giurisdizione di una politica finalmente emancipata da queste superstizioni; tutto questo, agli occhi di Weber, è soltanto un lato della faccenda. Sotto questo “disincanto” può celarsi infatti anche un lato negativo, diciamo pure, la sensazione di aver perduto qualcosa e un lacerante senso di vuoto.

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Esattamente quanto ci resta, acutissimo, a cento anni dalla sua morte. Cadute le grandi impalcature metafisico-religiose del passato, il problema di come condurre sensatamente la nostra vita produce in termini culturali una grande varietà di forme, che vanno dalla più retriva nostalgia per il passato, all’entusiasmo più smodato per la scienza e la tecnica, fino al nicciano nichilismo attivo. E’ questa la grande ambivalenza della modernità che sfocerà nella cultura della crisi d’inizio secolo XX, dentro la quale Weber vive, senza essere tuttavia né un fanatico dell’apocalisse né un apologeta del nichilismo. D’altra parte, come ci insegna uno degli interpreti più acuti del pensiero weberiano, Hans-Peter Mueller, un conto è vivere dentro questa crisi guardando a Kant e a Goethe, come fa Weber, altro conto è viverci guardando a Nietzsche e Schopenhauer, come fanno tanti altri eminenti studiosi e intellettuali suoi contemporanei che, a furia di crogiolarsi nel rimpianto della Kultur ormai sopraffatta dalla Zivilisation, finiranno per preparare il terreno alla diffusione del nazionalsocialismo.

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Weber prende molto sul serio il nichilismo della nicciana “genealogia della morale”; vede come pochi altri l’esplosivo che in essa si nasconde; ne condivide il potenziale di sfondamento in ordine al fatto che ormai i valori semplicemente si scelgono, non si fondano. E tuttavia Weber non ne condivide l’euforia vandalica, diciamo pure il nichilismo attivo. Nietzsche aveva scritto che dovevamo passare attraverso l’esperienza del nichilismo per comprendere quale fosse l’inconsistenza dei valori del passato, Weber è decisamente più sobrio; non riesce a nascondere la preoccupazione per ciò che abbiamo perduto: “Non abbiamo davanti a noi la fioritura dell’estate, ma in primo luogo una notte polare di gelida tenebra e di stenti”, scrive in “La politica come professione”; né si limita a prendere atto delle contraddizioni della modernità, ossia del prezzo che bisogna pagare per aver finalmente disincantato il mondo. Piuttosto se ne fa carico, le assume su di sé, con uno spirito che certo non ha l’impeto e la vitalità di Goethe, ma forse lo supera quanto a stoicismo e consapevolezza, specialmente riguardo alle ambivalenze della cosiddetta individualizzazione (intorno a sé non vede “individui”, ma gente desiderosa “di ordine e nient’altro che ordine”).

 

  

In altre parole, Weber vede chiaramente il carattere inconciliabile della coscienza moderna. Una volta infranta l’antica comunità etica, la hegeliana Sittlichkeit, non esiste più un luogo rassicurante per l’identità individuale. Hegel credeva ancora nella possibilità di “conciliazione” rappresentata dallo stato; Goethe sembra aggrapparsi all’utopia saintsimoniana; ma Weber no. Weber prende molto sul serio la hegeliana “tragedia del riconoscimento”. Non esiste, non esiste più per Weber, un senso oggettivo del mondo, incarnato in un ordine sociale dove il reciproco riconoscimento è quasi automatico. Diventando gli individui sempre più “individui”, essi diventano sempre più opachi gli uni agli altri, nonché a se stessi; non è più detto che l’altro ci riconosca per ciò che di noi vorremmo che venisse riconosciuto. Meno che mai esiste per Weber un ordine razionale oggettivo, che la ragione umana, faticosamente quanto si vuole, può tuttavia cogliere e realizzare nella sua oggettività. Questi sono pensieri che appartengono inesorabilmente al passato, al tempo in cui gli uomini vivevano ancora in prossimità degli dei. Ma oggi né la filosofia, né la religione, né la scienza sono più in grado di fornire una qualche unificazione “teorica” e “pratica” del senso del mondo; il divenire del mondo si configura ormai come una “infinità” priva di qualsiasi senso oggettivo, essendo quest’ultimo, il senso, soltanto il risultato di una faticosa, quasi tragica, costruzione dell’uomo.

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Ecco il weberiano “disincanto” del mondo: il mondo ha perduto il suo antico ordine; di conseguenza non ci sono più riferimenti socio-culturali forti, capaci di includere esaustivamente gli individui, garantendo loro una ben precisa identità; ciascuno per proprio conto può soltanto cercare di inventarsene una; siamo soli; ognuno sceglie a proprio rischio e pericolo il proprio Dio o il proprio demone; la scelta di credere è ormai soltanto una possibilità in un orizzonte contrassegnato dalla non credenza. E’ un po’ questo il lascito della teoria weberiana della secolarizzazione-razionalizzazione, diciamo pure “il destino della nostra epoca”: il progressivo dislocamento della religione nell’ambito della singola coscienza individuale, divenuta il sacrario di ogni valore, non soltanto dei valori religiosi. Ciò significa, tra le altre cose, che in materia di valori e quindi di credenze, non è più possibile istituire gerarchie a priori. Credenza e non credenza sono, diciamo così, sullo stesso piano. E se questo stato di cose sancisce indubbiamente il progressivo allargamento dell’orizzonte della non credenza, è pur vero che la connotazione di quest’ultima appare sempre più inficiata da motivi di carattere spirituale che fanno pensare a una sorta di religione senza religione. Come dice Charles Taylor, “E’ venuta alla luce una razza di uomini capaci di vivere il proprio mondo come una realtà completamente immanente”. Al tempo stesso, però, è sempre Taylor a dirlo, assistiamo alla ricomposizione “della vita spirituale in nuove forme, e di nuovi modelli d’esistenza sia all’interno sia all’esterno della relazione con Dio”.

 

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Alla luce di queste considerazioni, la secolarizzazione appare dunque come un processo ambivalente, contrassegnato dall’assenza di Dio, certo, ma soltanto nel senso che non è più in suo nome che si costituiscono e funzionano i diversi sistemi sociali, non certo perché Dio non può continuare a essere una cosa seria per la ragione e per il cuore degli uomini. Non è più tempo per una fede superficiale, ereditata meccanicamente dalle generazioni che ci hanno preceduto, questo sì. Ma il processo di cui stiamo parlando, almeno in linea di principio, non è nemico dello stupore, della meraviglia o, se si vuole, dell’ingenuità, necessarie a intravvedere Dio. Né possiamo dire che, in linea di principio, lo sia la cosiddetta cultura laica. Anche nell’orizzonte della non credenza ci sono insomma ampie fasce di pensiero, magari tragico, ma non ostile in linea di principio alla fede religiosa, né alla pretesa che questa possa far sentire la sua voce anche nella sfera pubblica. Viviamo in un mondo in cui, non soltanto la politica e l’economia si sono chiaramente emancipate dalla religione. Anche sul fronte della poesia, della pittura, della musica e dell’arte in generale vediamo affermarsi forme di spiritualità e di mistero che non sono più di tipo religioso. Ma Dio non è escluso in linea di principio. Di conseguenza il vero problema non è più Dio sì, Dio no; né possiamo più dire, come faceva Weber, che la fede religiosa richieda in ultimo il “sacrifico dell’intelletto”. Il problema deve restare aperto; ed è questo il lato più vistoso e forse anche più promettente della secolarizzazione.

     

  

Come ho detto all’inizio, ciò che trovo particolarmente importante e affascinante del pensiero di Max Weber è la sua capacità di illuminare il disincanto del mondo nel quale viviamo, il suo politeismo, ma anche la messa in guardia rispetto al rischio che questo mondo possa trasformarsi in una “gabbia d’acciaio”. Weber vede come pochi altri le ambivalenze della modernità: i suoi orizzonti di senso teoricamente illimitati, la contingenza delle nostre scelte e di tutto ciò che è, ma anche il rischio che la nostra “condotta di vita” sempre più “privatizzata” si riduca a una prestazione di adattamento a sistemi sociali che funzionano come se gli individui non esistessero. E tuttavia Weber ci insegna che rispetto a questo stato di cose indietro non si torna. Pur con tutti i problemi, pur vedendo all’orizzonte “una notte polare di fredda tenebra e di stenti”, è sempre meglio l’individualizzazione della condotta di vita che i legami delle antiche comunità. C’è insomma nel suo pensiero una venatura stoica che dovrebbe essere valorizzata. Tutti abbiamo bisogno di un po’ più di responsabilità in ciò che facciamo e di consapevolezza di ciò a cui aspiriamo, appunto di oikeiosis, quella sorta di impulso originario che ci spinge a vivere in armonia con noi stessi, con il nostro essere e la nostra ragione, rispondendo in questo modo alle “richieste di ogni giorno” (sono parole di Goethe che Weber cita alla fine di “La scienza come professione”).

 

Ma per valorizzare a pieno questa eredità weberiana dobbiamo cambiare registro epistemologico. Il suo individualismo senza dubbio continua a rappresentare un argine prezioso a tutte le forme di organicismo e a tutte le pretese che la società possa essere “costruita” secondo i canoni della scienza, della politica o della religione. Un supporto formidabile per la libertà. Ma dobbiamo forse integrarlo con una maggiore consapevolezza del fatto che la libertà e la responsabilità non crescono spontaneamente, occorre impararle, e che pertanto è fondamentale l’aiuto degli altri; sono fondamentali le relazioni primarie grazie alle quali gli individui diventano veramente qualcuno. Penso alle relazioni educative in generale. E’ attraverso queste relazioni che la condotta di vita diventa consapevole, che scegliamo cioè come vivere, sapendo anche perché. E questo vale sempre, quale che sia la nostra concezione del mondo. Anche nell’ipotesi, invero piuttosto triste, che l’uomo sia semplicemente solo, gettato dal caso in un mondo senza senso, la differenza decisiva per la qualità della nostra vita la faranno sempre coloro che ci hanno amato, educato, aiutato a crescere.

 

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