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Fëdor di carne e di sangue

Micol Flammini

I segreti, l’azzardo e quel costante desiderio d’umanità. Le “Lettere” di Dostoevskij sono un flusso di coscienza

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È iniziato tutto per un caso, un ripensamento, senza il quale Fëdor Mikhailovich Dostoevskij non sarebbe mai esistito. E’ forse inutile ricordare che lo scrittore, il pensatore, l’eterno malato e l’ineludibile innamorato fosse nato a Mosca l’11 novembre del 1821, primo di sette figli, da due genitori benestanti ed eruditi. Lei ricca, amorevole, religiosa e cagionevole. Lui medico militare, ambizioso e alla fine della sua vita alcolizzato e violento. La madre, la Bibbia, il padre, gli studi hanno sicuramente contribuito a far dello scrittore lo scrittore. Ma Fëdor Mikhailovich Dostoevskij è nato ventotto anni dopo, il diciannove dicembre del 1849, sul patibolo. Venne condannato a morte, fucilazione, per sovversione. E sul patibolo Dostoevskij ci arrivò davvero.

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È iniziato tutto per un caso, un ripensamento, senza il quale Fëdor Mikhailovich Dostoevskij non sarebbe mai esistito. E’ forse inutile ricordare che lo scrittore, il pensatore, l’eterno malato e l’ineludibile innamorato fosse nato a Mosca l’11 novembre del 1821, primo di sette figli, da due genitori benestanti ed eruditi. Lei ricca, amorevole, religiosa e cagionevole. Lui medico militare, ambizioso e alla fine della sua vita alcolizzato e violento. La madre, la Bibbia, il padre, gli studi hanno sicuramente contribuito a far dello scrittore lo scrittore. Ma Fëdor Mikhailovich Dostoevskij è nato ventotto anni dopo, il diciannove dicembre del 1849, sul patibolo. Venne condannato a morte, fucilazione, per sovversione. E sul patibolo Dostoevskij ci arrivò davvero.

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Compì il viaggio dalla fortezza di Pietro e Paolo dentro a una carrozza fino alla piazza d’armi Semënovskij convinto di dover morire. Dal finestrino vedeva tantissime persone, tutte lì per l’esecuzione, e Fëdor si era chiesto soltanto se la sua famiglia sapesse. Aveva preferito non dire nulla. Lì, in quel momento, in quell’attesa, Dostoevskij stava per nascere, ma non lo sapeva neppure lui, perché compì i passi verso il patibolo nella sicurezza della morte, contando i minuti, tutti enormemente lunghi. Sentiva quel che si può provare quando si conosce l’ora, il minuto esatto della propria fine, quando ogni secondo sembra una “ricchezza enorme”, scrive ne L’idiota. In quel minuto finale, che era un secolo intero, non sapeva che lo zar Nicola I aveva deciso di commutare la pena e mandare lui e gli altri accusati della medesima colpa ai lavoro forzati in Siberia. Lo scoprì sul patibolo, con i fucili che si allontanavano e quell’attesa della fine divenne il momento esatto in cui nacque lo scrittore.

 

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“Ci hanno letto la sentenza di morte, ci hanno fatto baciare la croce, hanno spezzato sopra la testa le spade e ci hanno fatto la toeletta del condannato (camicie bianche). Poi ne hanno messi tre al palo per eseguire la condanna. Ero il sesto, ne chiamavano tre alla volta, perciò a me toccava il secondo turno e mi restava da vivere non più di un minuto”. La ritualità della condanna si interrompe con la grazia e con queste parole Dostoevskij si rivolge al fratello Mikhail per informarlo che era ancora in vita. Sappiamo cosa pensò, come si comportò grazie a un nuovo libro edito dal Saggiatore che raccoglie le lettere che lo scrittore russo mandò a famigliari, amici, colleghi, editori. Non sono soltanto lettere, ma frammenti, singhiozzi, scommesse, monologhi, illuminazioni. Sono istanti preziosissimi quelli raccolti nel tomo di quasi mille e quattrocento pagine intitolato “Lettere”, curati e tradotti da Alice Farina con Giulia De Florio e Elena Freda Piredda. Piccoli pezzi dell’autore, stracci, lacrime, logorii e affetto, entusiasmi, speranze. Ci si sente dei guardoni a leggere le continue richieste ai destinatari di non far vedere “la lettera a nessuno”, si vergognava di molte cose lo scrittore russo e soprattutto non amava le lettere. Si spia la sua vita, il suo dolore, il suo amore, il suo vizio e si capisce che è da quel patibolo che inizia tutto. 

 

Lo scrittore nasce in quell’istante eterno prima della morte, sul patibolo.  Non sapeva che Nicola I aveva già concesso la grazia

   
“Non mi sono scoraggiato né perso d’animo. La vita è vita ovunque, la vita è dentro di noi, non al di fuori. Intorno a me ci saranno altri uomini, ed essere uomo tra gli uomini e rimanerlo per sempre, qualunque disgrazia capiti, senza lamentarsi, non perdersi d’animo – ecco in che cosa consiste la vita, qual è il suo scopo. Me ne sono reso conto. Quest’idea si è fatta di carne e sangue. E’ la verità!”. Una delle ossessioni di Fëdor Dostoevskij è l’umanità, che presumibilmente è l’ossessione di ogni scrittore, ma in lui è l’ossessione per la carnalità che distrugge o libera i suoi personaggi. E’ un conflitto stancante tra anima e corpo. E anche questo, si capisce dalla prima lettera dopo la condanna, indirizzata al fratello Mikhail, inizia lì: sul patibolo. “Quella testa che creava, si nutriva della vita superiore dell’arte, che ha compreso e si è abituata alle nobili esigenze dello spirito, quella testa ormai si è staccata dalle mie spalle. Ne è rimasto il ricordo e le immagini create, ma rimaste ancora senza forma. Lasceranno cicatrici, è vero! Però mi è rimasto il cuore, e quella carne e quel sangue che ancora possono amare, soffrire, desiderare e ricordare, e in fondo anche questa è vita! On voit le soleil!”. 

 

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Con questi pensieri Dostoevskij parte per la Siberia, pensando di essere diventato uomo tra gli uomini, di aver trovato la vita fatta di carne e di sangue e questa voglia di umanità, che diventerà voglia di sottosuolo, rimarrà però per sempre uno dei pensieri fissi della sua vita, perché se c’è una cosa di cui il romanziere non riesce mai a liberarsi è del suo spirito. L’opera di Dostoevskij, così come le sue epistole, sono un tormento dello spirito che si torce, si assottiglia, si rimpicciolisce nel tentativo di diventare terreno, umano, carnale. La frusta con cui lo scrittore cerca di legare la propria anima rimarrà il suo cruccio più grande, perché non soltanto Dostoevskij aveva ricevuto un’educazione molto religiosa, ma aver conosciuto quegli istanti che precedono la morte lo aveva portato a liberarsi ancora di più del corpo, nonostante fosse proprio il corpo il vero vincitore di quell’attesa ultraterrena, di quell’incontro con il fucile. Così la Siberia, la sofferenza fisica e la privazione vissute come esperienza terrena, avevano reso il suo spirito ancora più forte. Questo dualismo tra anima e corpo, due parti dell’autore che sembrano odiarsi, picchiarsi, quasi che la prima voglia uscire dal secondo e il secondo sfilarsi di dosso la prima; il desiderio confessato più e più volte dallo scrittore di sentirsi pienamente umano è stato sintetizzato da Dmitri Merezhkovskij. Lo scrittore, nato russo e morto francese, lo ha messo in luce nel rapporto, che era un non rapporto perché i due non si conobbero mai, tra Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Scrive Merezhkovskij che Dostoevskij era un profeta dello spirito, Tolstoj un profeta della carne. Il primo aspirava alla dimensione del secondo e il secondo alla dimensione del primo. Fëdor voleva essere materia e Lev spirito. Non si incontrarono, non si videro, anche perché le loro vite rincorrevano aspirazioni separate, sapevano dell’esistenza ingombrante e curiosa l’uno dell’altro, ma la ricerca di dimensioni così opposte non li portò mai a parlarsi. 

 

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Dostoevskij nacque benestante, ma visse tutta la sua vita adulta in uno stato di necessità costante e i soldi sono uno degli argomenti che più ricorre nelle lettere. Li chiede, li promette, li perde. Il denaro è il motivo che lo porterà via dalla Russia, una separazione che non riesce a sopportare. Fëdor si indebita continuamente, gioca come giocano i suoi personaggi, cerca di vendere le sue opere che hanno successo, ma lui non è un talento organizzato e metodico, la sua scrittura è spesso una corsa forsennata dietro ai suoi personaggi, alle sue storie e anche ai soldi. In una lettera indirizzata a sua moglie Anja, Anna Grigor’evna, inviata da Saxon-les-Bains, luogo della perdizione dietro alla roulette, il romanziere scrive: “Mio caro angelo Njutja, ho perso tutto appena sono arrivato, in mezz’ora ho perso tutto. Che posso dirti ora, mio angelo di Dio che io tormento così tanto? Perdonami, Anja, ti ho avvelenato la vita! E abbiamo anche Sonja!”. Fëdor le chiede dei soldi, le dice che ha impegnato l’anello, ha bisogno di cento franchi per riparare ai suoi errori e per fuggire da lì, vuole tornare a Ginevra, vuole ricominciare a scrivere, vuole andare da lei. Si sono allontanati dalla Russia per problemi di debiti, i due vanno in Italia, in Svizzera, in Germania. Fuori dalla sua patria si annoia, scrive lettere che sembrano conversazioni, “per lettera non si comunica niente di comprensibile”, dice al suo amico Majkov. Ma ne scrive molte, fa progetti, immagina una grande storia della Russia in versi, parla di debiti, che lo opprimono, di povertà, che diventa sempre più insostenibile. Non ama Firenze, detesta l’afa e a Dresda cerca di sentirsi un po’ più vicino alla Russia, se non fosse che non tollera i tedeschi – “mi hanno rovinato i nervi” – e li definisce crudeli. Cerca la sua nazione in un posto che non è la sua nazione. Si trascina, trascina il suo corpo, sua moglie e a un certo punto anche sua figlia, per l’Europa che non ama e non capisce. In una lettera indirizzata sempre all’amico e poeta Apollon Nikolaevic Majkov confida il suo straziante desiderio di Russia. “(...) sono finito in una terra straniera, dove non soltanto non c’è neanche una persona, dei libri o pensieri e preoccupazioni russi, ma non si riesce a trovare neppure un volto amichevole”. Progetta di scrivere un libro, ma non può farlo, dice, perché ha troppo bisogno della Russia. “Ne ho bisogno per scrivere e per lavorare (non parlo neppure di tutto il resto della vita) e quanto! Senza Russia (…) mancano le forze e i mezzi”. 

 

Nelle lettere Dostoevskij non scrive, parla. E’ lui, impulsivo, disperato, appassionato che racconta, dice, che spesso implora


Due sono gli incontri in cui Dostoevskij mette in contrapposizione l’Europa e la Russia. Il primo è con un giovane internazionalista russo espatriato perché è in Europa che si trova la “civiltà”, mentre in Russia è la “barbarie”. Fëdor rimane scioccato, parla di assurdità, ama la Russia e il suo essere così diversa dal resto che non capisce perché il giovane ami l’Europa in cui non si può distinguere “un francese da un inglese o da un tedesco”. Questo è il progresso, per il giovane, per Dostoevskij in questo sta la sconfitta dell’Europa. L’altro incontro è con Garibaldi, o meglio, lo scrittore e il condottiero stanno nella stessa stanza, ma è con le idee di Garibaldi che Dostoevskij si incontra e si scontra. A Ginevra assiste al Congresso per la pace. “Ogni cosa è stata sciocca: come si sono riuniti, come hanno condotto la questione e a quali conclusioni sono arrivati”. Il Congresso era una grande iniziativa pacifista, ma Dostoevskij nota come la pace, per chi la proponeva, era raggiungibile soltanto attraverso l’annullamento delle differenze. “Hanno iniziato proponendo di votare sul fatto che non servano grandi monarchie e che se ne debbano creare delle piccole, perché non serve la fede ecc. Sono stati quattro giorni di grida e insulti”. La Russia è ancora lontana da tutto questo, e per Dostoevskij è un rifugio, è un desiderio, una necessità: la vede come carnalità e spiritualità assieme. E le idee che circolano in Europa sembrano quasi voler estirpare la Russia da se stessa: “Questa feccia agita l’infelice folla dei lavoratori! E’ triste”. Da questa frase   fa capolino, per noi che abbiamo dalla nostra la storia già fatta e conclusa, la Russia con la sua rivoluzione. Per Fëdor era tutto ancora futuro, una dimensione che non avrebbe mai conosciuto, una Russia che forse non sarebbe più riuscito ad amare, ma che lo avrebbe fatto soffrire. 

 

“Mio caro angelo, ho perso tutto appena sono arrivato, in mezz’ora ho perso tutto. (...) Perdonami, Anja, ti ho avvelenato la vita!”

 

Le lettere che Fëdor Dostoevskij invia, questo sguardo così intimo al quale a volte ci si accosta quasi con pudore, sono il contrario della sua scrittura, ma anche il preludio ai suoi libri. Nelle lettere Dostoevskij non scrive, parla. E’ lui, impulsivo, disperato, appassionato che racconta, dice, che spesso implora. Non c’è il lavoro accurato, cosa che invece, per sua ammissione, c’era sui suoi romanzi, che leggeva e rileggeva, scriveva e riscriveva. Sono delle conversazioni spontanee, dei monologhi, delle contraddizioni. Rincorre se stesso e i suoi personaggi, che nelle lettere si vedono nascere, rincorre la sua Anja che spesso interviene a salvarlo. Fugge dai soldi, dalla loro ossessione, cade nel gioco e nel suo pentimento. 

 

Nelle lettere lo vediamo piccolissimo e fragilissimo, con la sua malattia addosso, che colpisce il corpo ma che gli lascia uscire l’anima. Quella morte scampata sul patibolo lo aspetta ogni volta con una nuova crisi di epilessia: è quello il momento in cui la condanna si ripete. Ma è anche  l’istante dell’attesa, quel minuto lunghissimo, in cui corpo e anima smettono di lottare. Scrive ne L’idiota: “Il dolore principale, il più forte, (…) è la certezza, che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima si staccherà dal corpo, e che tu, uomo, smetterai irrevocabilmente di essere un uomo”. E’ sul patibolo che ha imparato a riconoscere quell’istante, quello in cui l’uomo è ancora uomo, per un attimo. Con la memoria di quell’istante, Dostoevskij ha poi vissuto, e scritto.

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