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Lezioni sul senso della fine

Matteo Marchesini

Kermode e la necessità di ridare cittadinanza alle finzioni narrative a misura d’uomo

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L’ultima svolta cruciale nel rapporto tra la nostra cultura e i fatti estetici risale forse agli anni 60. Sfumava allora la modernità antagonista, neutralizzata dalla sua riduzione a oggetto didattico o mediatico. Dopo aver provato ad addomesticare gli sperimentalismi eversivi d’inizio secolo, il romanzo tentava un suicidio rituale. In quel periodo molti narratori abbandonarono il racconto per la pura descrizione, come se il mondo insieme mutevolissimo e immodificabile delle società affluenti, con i suoi mostri burocratici e tecnologici, non potesse essere rappresentato in una trama scandita secondo ritmi umani. Su questo scacco ha riflettuto tempestivamente Frank Kermode in Il senso della fine, una raccolta di conferenze del 1965 uscita di recente per il Saggiatore. Il sottotitolo annuncia “Studi sulla teoria del romanzo”, ma è ingannevole. Come ricordava E. M. Forster, che più del citatissimo Wallace Stevens è il vero patrono di questo libro, “il romanzo è fradicio d’umanità”, e chi pretende di affrontare l’uno senza parlare dell’altra si ritrova in mano appena “un mazzetto di parole”: quello che nel decennio 60 stringevano compiaciuti gli autori degli antiromanzi e gli strutturalisti.

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L’ultima svolta cruciale nel rapporto tra la nostra cultura e i fatti estetici risale forse agli anni 60. Sfumava allora la modernità antagonista, neutralizzata dalla sua riduzione a oggetto didattico o mediatico. Dopo aver provato ad addomesticare gli sperimentalismi eversivi d’inizio secolo, il romanzo tentava un suicidio rituale. In quel periodo molti narratori abbandonarono il racconto per la pura descrizione, come se il mondo insieme mutevolissimo e immodificabile delle società affluenti, con i suoi mostri burocratici e tecnologici, non potesse essere rappresentato in una trama scandita secondo ritmi umani. Su questo scacco ha riflettuto tempestivamente Frank Kermode in Il senso della fine, una raccolta di conferenze del 1965 uscita di recente per il Saggiatore. Il sottotitolo annuncia “Studi sulla teoria del romanzo”, ma è ingannevole. Come ricordava E. M. Forster, che più del citatissimo Wallace Stevens è il vero patrono di questo libro, “il romanzo è fradicio d’umanità”, e chi pretende di affrontare l’uno senza parlare dell’altra si ritrova in mano appena “un mazzetto di parole”: quello che nel decennio 60 stringevano compiaciuti gli autori degli antiromanzi e gli strutturalisti.

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Kermode lo sa bene, e quindi con il romanzo studia il “bisogno di parlare in termini umani dell’importanza della vita”. Ciò che gli preme è ridare cittadinanza, nel terreno inospitale del tardo Novecento, alle finzioni narrative a misura d’uomo: un atteggiamento che nella prefazione Daniele Giglioli chiama “conservatore”, e che a me ricorda la preoccupazione espressa negli stessi mesi dal Debenedetti del “Personaggio-uomo”, saggio in cui pure, con un tatto di causeur paragonabile all’eleganza britannica di Kermode, il critico italiano azzarda un paragone tra la letteratura e la fisica. Ma più ancora, queste riflessioni proposte per la prima volta in un college americano fanno pensare al ciclo di conferenze che l’anno dopo tenne a Princeton Nicola Chiaromonte, e che confluirono in “Credere e non credere”.

 

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In questione è sempre la maniera nella quale i romanzi intrecciano gli eventi, privati e pubblici, sullo sfondo di una visione della storia che nasce dalla laicizzazione del cristianesimo. Come tutte le grandi narrazioni, anche la moderna epica romanzesca vuole dare un senso alla nostra esperienza del tempo. E perché il tempo non resti informe, spiega Kermode, occorre percepirlo come l’intervallo tra un tic iniziale d’orologio e un toc finale – ossia trasformare il chronos in kairos, l’insignificante trascorrere dei minuti o delle stagioni in una durata significativa. Gettati nel mezzo di un percorso di cui non conoscono l’inizio e la fine, gli uomini tentano d’immaginarle integrando presente, passato e futuro in un’armonia poetica. Solo che il romanzo rispecchia una realtà priva di gerarchie, e per rendersi credibile deve introdurre via via delle dissonanze, o addirittura autosabotarsi. Eppure, lo nota Giglioli, Kermode non insiste sulla sua laica incompiutezza, bensì sulla sua natura di “erede legittimo dell’Apocalisse”, il modello occidentale della trasfigurazione del tempo. Rimane il fatto che l’erede non può limitarsi ad amministrare i possedimenti degli avi, perché al bisogno di finzioni armoniche la modernità oppone un “crescente sospetto verso le finzioni in generale”. Questo sospetto affonda le sue radici nell’età della rivoluzione scientifica. L’anello di passaggio tra le chiose ai testi sacri di Gioacchino da Fiore o di Dante e il Robinson Crusoe è infatti la tragedia shakespeariana, dove la catastrofe personale si divide da quella di un mondo che dura dopo la morte degli eroi. Più ci si avvicina al XX secolo, più l’escatologia s’individualizza. E tuttavia, per una contraddizione solo apparente, si moltiplicano anche le teorie che tornano a suggerire un disegno provvidenziale (vedi Marx) o che lo rovesciano nel mito negativo del tramonto di civiltà. Sono surrogati della simbologia condivisa che è venuta a mancare, e non sempre surrogati innocui: basta pensare al fascismo. Le mitologie hitleriane trasformano la realtà in delirio: il contrario delle finzioni estetiche, in cui l’uomo è posto davanti ai suoi limiti. Se infatti attraverso l’armonia dell’intreccio i romanzi devono consolarci, non devono però rimuovere la percezione angosciosa della contingenza. E d’altra parte questa percezione non può occupare l’intero campo, perché l’esigenza di un senso non effimero è radicata nella nostra biologia: le nuove avanguardie, riducendo l’arte all’insignificanza, finiscono per offrirci una caricatura sterile della tradizione, e ricordano a Kermode certi fanatici che nella storia delle eresie “reinventavano dottrine di sette più antiche senza conoscerle”. Più interessante gli sembra l’umanesimo romanzesco di Sartre, mantenuto dallo scrittore contro la sua stessa filosofia. Per parafrasare Benjamin, che il lettore di oggi si stupisce di non trovare in un libro sull’immaginario apocalittico, “La nausea” dimostra che una messa in scena dell’insensatezza non dev’essere per forza una messa in scena insensata. Eppure anche una poetica del genere esprime più il problema della soluzione. In definitiva, dato che la crisi è prima nella società che nella letteratura, nessuno è in grado di risolverla formalmente.

 

Dalla Grande guerra in poi, secondo Chiaromonte, senso ed eventi si sono separati. E siccome il romanzo si basa sulla loro unione, continuare tranquillamente a riproporlo significa dare per dimostrato ciò che non lo è più. Kermode ha una posizione abbastanza simile, ma resta in lui l’ottimismo della volontà. Questa edizione del Senso della fine si chiude con un epilogo scritto dall’autore intorno al Duemila, quando insieme alla Guerra fredda sembrava svanito quel terrore della bomba atomica che aleggiava sulle conferenze del ’65. Adesso che è finita anche la “fine della storia”, e che fronteggiamo una catastrofe senza sperare nella parousia, leggiamo i saggi kermodiani in un modo ancora diverso. Però certe crisi croniche non smettono di trascinarsi. Giglioli osserva che la letteratura odierna fa dell’apocalisse un tema ma non una forma: non riesce cioè a stabilire un rapporto simbolico storicamente adeguato con la cosa rappresentata. Finché la situazione non cambia, Kermode rimarrà un nostro contemporaneo.

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