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Perché restituire le opere d’arte alle nostre ex colonie non è un bene per nessuno

Valeria Sforzini

Come resistere alla cancel culture: il caso del Museo italo-africano Ilaria Alpi e l'approccio del Goethe Institut

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La decisione della Francia di restituire opere sottratte in epoca coloniale ai loro paesi d’origine ha riacceso un dibattito che periodicamente riprende vigore. In Italia, circa 12 mila reperti sono confluiti all’interno dell’ex Museo coloniale di Roma, che in epoca fascista divenne uno strumento per costruire una narrazione eroica attorno alla presenza italiana sui territori delle ex colonie. Museo i cui reperti furono esposti al pubblico per la prima volta nel 1914 e che da allora ha cambiato forma, dopo essere rimasto chiuso per oltre 40 anni (dagli anni 70 al 2016). Le sue collezioni oggi si trovano nel Museo italo-africano Ilaria Alpi, una sezione del Museo delle civiltà con sede all’Eur, a Roma. Dopo alcune mostre temporanee, si sta lavorando all’allestimento permanente, con la prospettiva di aprire nel 2022.

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La decisione della Francia di restituire opere sottratte in epoca coloniale ai loro paesi d’origine ha riacceso un dibattito che periodicamente riprende vigore. In Italia, circa 12 mila reperti sono confluiti all’interno dell’ex Museo coloniale di Roma, che in epoca fascista divenne uno strumento per costruire una narrazione eroica attorno alla presenza italiana sui territori delle ex colonie. Museo i cui reperti furono esposti al pubblico per la prima volta nel 1914 e che da allora ha cambiato forma, dopo essere rimasto chiuso per oltre 40 anni (dagli anni 70 al 2016). Le sue collezioni oggi si trovano nel Museo italo-africano Ilaria Alpi, una sezione del Museo delle civiltà con sede all’Eur, a Roma. Dopo alcune mostre temporanee, si sta lavorando all’allestimento permanente, con la prospettiva di aprire nel 2022.

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Anche in Italia, il dibattito sulle restituzioni si sta riaccendendo. “Troppo spesso si dimentica che oggetti, statue, dipinti, gli stessi musei che tutto ciò racchiudono, non sono elementi di un discorso neutro – scrive l’antropologa culturale Serena Fiorletta, docente all’Università Sapienza di Roma, nel suo saggio “Il Museo negato. Narrazione nazionale e museografia”, pubblicato sulla rivista Roots and Routes – L’impatto visivo ed emotivo scatenato dalla vista di questi oggetti ha contribuito all’idea di ‘disvelamento della memoria’ del fenomeno coloniale italiano”. Oggi il piano per il Museo italo-africano Ilaria Alpi è quello di dare una nuova forma a questo archivio, facendo nascere una collaborazione con le nostre ex colonie e incoraggiando una presa di coscienza collettiva. “Gli oggetti che raccontano una relazione anche di violenza possono essere il veicolo per aprire un dibattito su questa sopraffazione”, spiega Rosa Anna Di Lella, curatrice del museo. Dei circa 12 mila reperti, la maggior parte comprende strumenti di uso comune, ma la collezione presenta anche armi, oggetti appartenuti a esponenti della resistenza libica di cui è stata chiesta la restituzione negli anni 60. Restituzione che poi si è conclusa con un nulla di fatto, con la domanda archiviata sia dalle ex colonie, sia dall’Italia. “Non siamo noi a decidere di restituire – continua Di Lella – Questi processi dipendono dalla volontà degli stati coinvolti e dai rapporti diplomatici che intercorrono tra di essi. Per esempio è successo quando Gheddafi nel 2008 venne in Italia per firmare il trattato di Bengasi e richiese la restituzione di beni archeologici. Si presentò all’aeroporto di Ciampino esibendo sul petto una foto dell’eroe della resistenza anticoloniale libica Omar al Mukhtar. In quell’anno venne restituita la Venere di Cirene”.

 

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Esistono strumenti a livello internazionale per gestire le restituzioni, ma nel caso dei beni appartenuti alle ex colonie il processo è diverso. “Occorre bilanciare alcuni elementi – spiega il prof. Tullio Scovazzi, docente di Diritto internazionale all’Università Bicocca – Il primo è l’ingiustizia morale della rimozione: il dominio coloniale è un classico esempio in cui c’è stato un abuso e la restituzione andrebbe effettuata. Poi ci sono il carattere emblematico, l’importanza del bene, il tempo che è passato dalla rimozione, o la cura che lo stato di origine darebbe al bene se questo vi tornasse. L’Italia ha due precedenti: l’obelisco di Axum, per il quale l’obbligo di restituzione era previsto dal trattato di pace del 1947 e la Venere di Cirene”. In questo caso, “per il tribunale, la restituzione della Venere non era prevista solo in base alla dichiarazione congiunta italo-libica del 1998, ma rifletteva un obbligo già esistente in base a due norme consuetudinarie del Diritto internazionale”.

 

Il Goethe Institut si è ampiamente occupato del tema organizzando eventi e conferenze virtuali. L’ultimo è stato il festival “Tutto passa tranne il passato”. “Quando si fa riferimento ai parametri per stabilire la necessità di portare a termine una restituzione bisogna comprendere l’esistenza di sfumature – spiega Carola Lentz, etnologa e presidente dell’istituto – Fino a poco tempo fa, i musei in Germania non avevano molti tabù nell’esporre oggetti raccolti nel contesto coloniale. Oggi la consapevolezza delle difficoltà legate al mostrare o meno oggetti di origine problematica è aumentata notevolmente. Il punto è capire come presentarli”. Ridare il bene al paese di origine non è l’unica soluzione. “I musei etnografici e le comunità di origine stanno dando nuove forme alla restituzione – spiega ancora Di Lella – Su molte collezioni del Museo coloniale si può fare un ragionamento di storia condivisa. Non è un discorso generalizzabile, ma questi oggetti hanno un valore per noi, hanno un valore per il paese ex colonia e ormai non appartengono né all’uno né all’altro. Ora sono il simbolo di una storia comune che si è formata”.

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