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L’Evita che non c’è

Francesco Palmieri

Il dramma di una donna fra passione politica e lotta contro il male. Il mito di Eva Perón, a centouno anni dalla sua nascita, dentro e fuori l’Argentina

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La passione, la memoria e la morte sono la triade più tragica e sicura per diventare belli, se è la bellezza che conta quando tutto è trascorso e quel che amammo veramente resta la vera eredità. Passione memoria morte – come bellezza – sono sostantivi femminili e lo è persino la politica. Forse perciò appartiene anche ai segreti della grammatica la commozione, quando il congedo prematuro riguarda una donna al termine di una battaglia vinta in politica e di un’altra persa con la morte. Come Jole Santelli, governatrice di Calabria e tipo bruno di guerriera mediterranea, che celebrò il successo elettorale danzando un ballo popolare come avrebbe fatto qualche sua antenata nel buio di un altro tempo.

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La passione, la memoria e la morte sono la triade più tragica e sicura per diventare belli, se è la bellezza che conta quando tutto è trascorso e quel che amammo veramente resta la vera eredità. Passione memoria morte – come bellezza – sono sostantivi femminili e lo è persino la politica. Forse perciò appartiene anche ai segreti della grammatica la commozione, quando il congedo prematuro riguarda una donna al termine di una battaglia vinta in politica e di un’altra persa con la morte. Come Jole Santelli, governatrice di Calabria e tipo bruno di guerriera mediterranea, che celebrò il successo elettorale danzando un ballo popolare come avrebbe fatto qualche sua antenata nel buio di un altro tempo.

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È l’acqua delle lacrime, cui quella di ogni fiume è incomparabile, che lava più rapidamente i volti dei precoci assenti causa morte dalle scorie polemiche, dai detriti di fazione e dalle ferite di sassaiole televisive. Compianta Jole non giunse tuttavia al mito, che nella storia politica italiana toccò per sparutissimi casi alle donne, ma di riflesso a un uomo o magari by chance. Come Anita Garibaldi perché per Giuseppe seppe lasciare un marito, maneggiare il fucile e montare al galoppo, o come Claretta Petacci per il talento inusitato di mettersi davanti a un mitra. Al contrario, scarsa luce riversò per esempio su una Nilde Iotti il riflesso di Togliatti, perché morì molto prima di lei e perché chi invecchia troppo assurge a Olimpi più algidi che epici quando scandisce l’ora del congedo.

 
Sembrano invece irrimediabilmente immuni a maggiori o minori mitologie, malgrado il vantaggioso trampolino del populismo, le protagoniste della scena politica attuale. E malgrado la luce su di loro batta più diretta che di riflesso, sempre la passionalità surroga la passione, la memoria già s’annuncia fiochissima e la vita meno vitale della morte in una giovinezza senza giovinezza.

 
“Divenne bella”, Eva Perón, “con la passione, con la memoria e con la morte” scrisse l’autore di Santa Evita, Tomás Eloy Martínez. E a centoun anni dalla nascita dell’eroina politica, che ne visse solamente trentatré, il suo mito ancora fiammeggia, per esaltazione o per deprecazione, dentro e fuori dell’Argentina. E il peronismo, primo populismo contemporaneo di cui lei fu e resta l’emblema, appare tuttora vitalissimo sebbene a ogni periodico declino ne sia stata refertata l’agonia o la morte. Giustizialista è un’attribuzione ideologica che trasposta in Italia diventa attributo offensivo, perché virato su tutt’altre rive dall’originaria rotta che tracciò – seppur confusamente – il generale Juan Domingo Perón, l’unico cui riuscì di occupare tre volte la Casa Rosada a Buenos Aires ma che non ce l’avrebbe fatta senza Eva e il suo mito. Da viva poi pure da morta. Lei, la povera ragazza di provincia che cerca la fortuna come attrice, ma sposando un uomo la consegue in una recita più grande, l’eroina dei miseri descamisados invisa agli oligarchi e adorata dal proletariato, la first lady ingioiellata che si smarca dal ruolo e osannando Perón gli ruba la luce, la tipina forse brutta che si mutò da bruco in leggiadra farfalla, l’incolta signora devota al generale e antifemminista che tuttavia s’intesta le battaglie per il diritto di voto alle donne e il riconoscimento dei figli naturali, l’indefettibile animatrice di opere assistenziali per la quale pregarono e piansero, alla morte, milioni di argentini mentre chi la detestava, detestandola più di Perón, tolse un sospiro di sollievo. E quando nel ’55 un golpe – conosciuto come la Revolución Libertadora – spodestò il generale, subito il suo corpo, il corpo di Evita imbalsamato con impareggiabile maestria da un medico che bordeggiò la follia fu sequestrato, posseduto, nascosto dai nemici di Perón affinché non diventasse emblema di controrivoluzione né reliquia dei ribelli, fino all’occultamento della salma sotto falso nome nel Cimitero Maggiore di Milano, perché solo l’Italia lontana avrebbe potuto proteggere le temute e amate spoglie. Quando, nel 1971, furono restituite a Perón, risultarono ancora intatte ma seviziate da qualcuno che aveva odiato pure dopo morta quella donna cui la biografa italiana, Carola Vai, attribuisce “immensa generosità” quanto “impareggiabile crudeltà” e che riusciva “passionale e fredda, calcolatrice e istintiva, dolce e aggressiva”.

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È mancata forse perché impensabile una Evita italiana – prescindendo da un Perón – o perché pensabile soltanto in un altrove che per noi si chiama da più di cent’anni Argentina, dove come spiega Guccini nell’omonima canzone si ha sempre l’impressione di averci già vissuto, ma che allo stesso tempo “è solo l’espressione di un’equazione senza risultato,  /  come i posti in cui non si vivrà, come la gente che non incontreremo, / tutta la gente che non ci amerà, quello che non facciamo e non faremo”. E’ forse dentro le foreste delle contraddizioni che è più florido il rigoglio dei miti contemporanei? E’ specialmente grazie ai media che succede, o non sussiste qualche chimica magia che trasfonde un personaggio politico, dell’arte o dello sport nella più vasta leggenda popolare? Perché Evita, morta nel ’52, arriva a Broadway nel ’78 con il musical di Tim Rice e Andrew Lloyd Weber e da lì diciott’anni dopo approda a Hollywood con il film di Alan Parker dov’è Madonna a impersonarla e a cantare Don’t Cry for me Argentina. Se poi nemmeno basta il mito a contenere una memoria, né il cinema né le canzoni, s’azzarda addirittura una chiamata per il Cielo: l’ha fatta l’anno scorso, centenario della nascita di Eva Duarte, la Cgt, la potente confederazione sindacale argentina, con un appello al cardinale Mario Aurelio Poli, successore di Bergoglio quale arcivescovo di Buenos Aires, chiedendo l’avvio della causa di beatificazione. Fu la Residencia della Cgt la prima tomba di Evita: lì il dottor Pedro Ara colse il suo maggior successo professionale d’imbalsamatore dopo avere già esibito commendevole perizia nel trattamento della salma del compositore Manuel de Falla, le cui mani – si convenne – avrebbero potuto suonare ancora il pianoforte per com’erano state conservate.

 
Oggi Evita sin dal ’74, dopo il colpo di Stato del sanguinario generale Jorge Videla, riposa sempre visitata ma finalmente esclusa dagli sguardi nella cappella della famiglia Duarte al cimitero signorile della Recoleta, sul cui muro fu fucilato un antenato di Borges, cantore immenso di Buenos Aires che perciò qui deve trovar voce nel suo spietato giudizio sull’“abominevole Perón”. Che lo perseguitò, e su Evita stessa: “Erano due individui misteriosi o anonimi (il cui nome segreto e il cui autentico volto ignoriamo)”.

 
Come sempre, qualche ragione Borges l’aveva: chi è, chi era veramente Evita? “Una compagna” secondo i guerriglieri Montoneros del peronismo di sinistra, o la protagonista – come pensa il maggior intellettuale vivente d’Argentina, Juan José Sebreli – di “un melodrama con toques de grotesco”? Coprì, con il marito, le fughe dei nazisti o fu l’anticipatrice di una dem dell’ala sinistra come Alexandria Ocasio-Cortez? Paragonata a Evita da Donald Trump, la giovane deputata del Bronx rivendicò la comparazione e twittò in risposta al presidente alcune frasi di “quella donna”. (“Quella donna”, Esa mujer, è il titolo di un racconto di Rodolfo Walsh dedicato a Eva e giudicato il più bello mai scritto in Sud America).

 
L’anno di dis-grazia 2020, in cui nel mondo si sono abbattute più statue di quante, si presume, i viventi attuali meriteranno in futuro, appare propizio alla demolizione dei miti. Ne perderebbe parecchi l’Argentina, che ne ha fatto cumulo spargendone il surplus per il mondo. E’ stato proprio Sebreli a firmare Comediantes y mártires, un “saggio contro i miti” in cui ne attacca quattro che sono stati fra i maggiori del secolo scorso: oltre a Evita, il re del tango Carlos Gardel, Diego Armando Maradona e Che Guevara, quest’ultimo liquidato come “un idiota politico” (ma più crudele fu forse Geminello Alvi, che dovendo definire il Che in una parola sola riassunse: “fotogenico”).

 
Con Eva, tuttavia, saranno vani gli attacchi perché il mito nel suo caso si è fuso a un archetipo, e se forse non sarà mai santa nessuna potrà contenderle l’incarnazione della Cenerentola, anzi la continuazione di una fiaba che prima di lei si concludeva col riconoscimento del principe e le nozze giulive. Evita, conquistato Perón, raccontò con la sua vita quel che accadde alla coppia dopo il prammatico “vissero felici e contenti”, spostando la parola fine persino molto al di là della sua morte per un cancro all’utero, con l’agonia che spaventò Perón il quale, un giorno, avrebbe confessato: “Non so se mi innamorai davvero. Ai miei tempi, gli uomini non si abbassavano a dire ‘ti amo’”. (Né però, come lui fece, si sarebbero abbassati a mormorare che quando si decisero a curare Evita “lei era ormai cibo per gatti”).

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Sessantun anni dopo il viaggio di Evita in Italia un suo coetaneo, ormai disincantato e stanco senatore a vita, ricordò quel 1947 quando entrambi ventottenni ascendevano le scale del mondo percorrendolo con la politica. Privo d’enfasi e non di memoria fu il giudizio di Giulio Andreotti intervistato dalla giornalista Carola Vai. Già sottosegretario con De Gasperi, in quella lontana estate del dopoguerra parlò lungamente a Roma con la first lady argentina e ne avrebbe conosciuto, anni dopo, anche il marito: “Dava veramente l’idea di un personaggio di Stato, non di piccola politica. Non ingannava il tempo con complimenti e scambi di cortesie, atteggiamenti tra l’altro che lasciano poi dell’incontro una memoria abbastanza sbiadita”, rievocò Andreotti. “Lei affrontava i problemi con profondità e questo suo comportamento unito alla bellezza, all’abilità politica, la rendeva un personaggio affascinante. Inoltre non metteva a disagio l’interlocutore. Parlando con lei si sentiva di aver a che fare con una personalità vera. Era realmente una donna di Stato con tutti i requisiti necessari per affermarsi, per difendere bene la causa del suo Paese, per fare delle analisi delle situazioni molto appropriate”.

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Sarà sempre un parziale mistero comprendere come si fosse attrezzata la Cenerentola della provincia argentina per risultare cotanta principessa al ballo politico: perché sì, le fate esistono nelle fiabe e nella vita Perón plasmò Eva Duarte, però a nessuna donna sarebbe stato facile bluffare così bene con il meno suggestionabile tra gli uomini, l’ancorché giovane Andreotti. Né sarebbe riuscito agevole esercitare con disinvoltura l’arte del ritardo, che fra le umane è la più presuntuosa, soprattutto se chi aspetta – per oltre un’ora – si chiama Pio XII. Nel suo viaggio a Roma, a Evita riuscì pure questo.

 
E allora Borges sì, qualche ragione l’aveva dicendo che (ancora) ignoriamo il volto e il nome segreto della coppia Perón. Almeno sono ignoti a chi oggi, sostituiti i miti con il loro bonsai, gli influencer, riscopre storie dall’apparenza minima e dall’effetto massimo: come Juan Domingo che si toglieva la giacca agli incontri pubblici per risultare alla mano assai prima di Kennedy e Obama; come Evita che nell’inverno assai freddo del ’49 mandò seicento cappotti e paia di scarpe ai bimbi poveri di Washington, umiliando gli States come forse nessuno prima o dopo. E ne ebbe pure per il Vecchio Continente: “Le opere sociali in Europa”, scrisse nel famoso libro La ragione della mia vita, “sono, nella loro stragrande maggioranza, fredde e misere. Molte opere sono state costruite con criteri di ricchi… e il ricco, quando pensa al povero, pensa da povero. Altre, sono state fatte con criteri statali; e lo Stato costruisce solo burocraticamente, vale a dire con una freddezza dalla quale è assente totalmente l’amore”.

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Di esa mujer ancora a lungo si scriverà, o si canterà in lungo e in largo, finché non ci sarà un’altra come lei. E avranno voglia di ripetere, i tanti che lo fanno da Brecht in poi, “poveri quei popoli che hanno bisogno di eroi”. Perché forse stanno peggio quelli che non ne hanno o che ne demoliscono le statue. Ed è per questo che quando si ripete il dramma di una donna ancora giovane fra passione politica e lotta contro il male, e di una morte solitaria in mezzo a tanta gente, come nel caso di Jole Santelli, uno ripensa un poco – può darsi sbagliando però ci sta – a quel che è stata Evita, all’Evita che non c’è, a quello che di Evita volendo o meno è arrivato fino qua.

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