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La libertà di iniziare da capo

Maurizio Crippa

Il Covid non è un cigno nero. E’ il terzo choc globale (in 20 anni) che ci avverte: non ci si salva da soli. Come uscire dalla società dell’individualismo liquido e realizzato. Un saggio

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Metastabile. E’ un termine della termodinamica che indica un sistema in condizione di stabilità temporanea. Può evolvere in positivo o in negativo, o rimanere bloccato. Dipende dall’energia che è in grado di sprigionare. Si potrebbe usare l’aggettivo per la pandemia Covid-19, in fondo è quello che dicono scienziati e politici: non conosciamo le possibili evoluzioni, sappiamo solo che ci saranno. Ma lo si può dire anche della situazione complessiva in cui siamo immersi, anche se nella vita quotidiana le persone usano altre parole: paura, incertezza, ansia per il futuro. Dunque, che cos’è questo choc da pandemia che stiamo vivendo? E’ “un evento eccezionale o uno degli effetti collaterali della società globale con i quali dovremmo imparare a convivere stabilmente?”. Dire “metastabile” non è una complicazione aggiuntiva, è provare a guardare le trasformazioni in atto usando una lente di ingrandimento. Nella fine è l’inizio - In che mondo vivremo (Il Mulino, 180 pp., 15 euro) è un libro che cerca di mettere ordine nei fatti e anche nei discorsi di tutti noi. Con un ottimismo paradossale, fin dal titolo e dalla prima citazione in esergo: “Ed è il pensiero della morte che, / infine, / aiuta a vivere”. Una poesia di Umberto Saba.

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Metastabile. E’ un termine della termodinamica che indica un sistema in condizione di stabilità temporanea. Può evolvere in positivo o in negativo, o rimanere bloccato. Dipende dall’energia che è in grado di sprigionare. Si potrebbe usare l’aggettivo per la pandemia Covid-19, in fondo è quello che dicono scienziati e politici: non conosciamo le possibili evoluzioni, sappiamo solo che ci saranno. Ma lo si può dire anche della situazione complessiva in cui siamo immersi, anche se nella vita quotidiana le persone usano altre parole: paura, incertezza, ansia per il futuro. Dunque, che cos’è questo choc da pandemia che stiamo vivendo? E’ “un evento eccezionale o uno degli effetti collaterali della società globale con i quali dovremmo imparare a convivere stabilmente?”. Dire “metastabile” non è una complicazione aggiuntiva, è provare a guardare le trasformazioni in atto usando una lente di ingrandimento. Nella fine è l’inizio - In che mondo vivremo (Il Mulino, 180 pp., 15 euro) è un libro che cerca di mettere ordine nei fatti e anche nei discorsi di tutti noi. Con un ottimismo paradossale, fin dal titolo e dalla prima citazione in esergo: “Ed è il pensiero della morte che, / infine, / aiuta a vivere”. Una poesia di Umberto Saba.

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Il pensiero della morte aiuta a vivere, ma a patto di mettere la parola “fine” a qualcosa che è andato male, che ha preso direzioni sbagliate. Non solo il virus, ma anche le scelte e i rischi che la nostra società – e chi la guida dal punto di vista economico o politico – ha operato negli ultimi decenni. Decenni in cui Covid-19 non è l’unico “choc globale”, arrivato per caso: prima ci sono stati le Twin Towers e la crisi del 2008 a scardinare un sistema mondiale che forse credevamo stabile, e invece era “metastabile”. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti sono entrambi sociologi, docenti all’Università Cattolica di Milano (Giaccardi insegna Sociologia e antropologia dei media, Magatti ha la cattedra di Sociologia a Scienze politiche e un percorso di intellettuale impegnato ai bordi esterni della politica: dalle Settimane sociali dei cattolici italiani al Cortile dei Gentili).

 

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Insieme hanno scritto un libro nella pandemia e sulla pandemia, girando alla larga dal dibattito sterile tra chi nega il problema (non soltanto i negazionisti del virus) e chi crede che alla fine andrà tutto bene, un vaccino o una mano invisibile metteranno a posto le cose: la “ripartenza” nel senso più banale e comune del termine. Giaccardi e Magatti, smistando e incrociando una dovizia di dati, di idee e riflessioni provenienti non soltanto dalla sociologia ma anche da filosofi, economisti, dagli studi sulla civiltà digitale dicono di no: dovremmo imparare a convivere con un mondo in equilibrio instabile, e l’esito fausto o infausto non lo deciderà da solo nessun governo, nessun potere tecno-economico, ma potrà essere costruito insieme tenendo conto di tutti i fattori.

 

Il libro non punta a dare una soluzione per il futuro, ce ne sono già troppi, ma a sbrogliare e mettere in fila i temi cruciali della contemporaneità che la pandemia ha fatto esplodere, intasando le normali vie di fuga che pensavamo di avere, ma che erano già in ebollizione prima e lo saranno poi. Un saggio rigoroso ma di lettura accessibile, ancorato com’è all’attualità. Che prende spunto dalle paure e dalle domande che da mesi interrogano tutti. A partire dalle più cruciali: fino a che punto si può rischiare? Fino a che punto possiamo proteggerci? E soprattutto: lo possiamo fare da soli, o l’èra dell’individualismo realizzato, della “modernità liquida”, ha incontrato il suo punto di non ritorno? Il libro è suddiviso in cinque capitoli, ognuno con tre parole chiave. L’ultima è un’ipotesi d’uscita.

 

Una società costruita sul rischio (ambientale, economico, sociale, sanitario) ora si trova in emergenza, con la paura di non saper gestire il futuro. Una società fatta di connessioni scopre il confinamento: dopo decenni di libera circolazione di persone e beni, scopriamo i vecchi confini e i muri e addirittura il lockdown. Una società che vive nel mito assoluto della libertà si trova sottoposta a sorveglianza, anzi “esporsi alla sorveglianza diventa un gesto spontaneo e quotidiano”. Una società costruita sui concetti di potenza e individualismo senza limiti, di una crescita infinita basata sull’idea che tutto il desiderabile è realizzabile, si trova alle prese con la fragilità individuale e collettiva. Una società che ha come sua dark side l’angoscia o la ribellione violenta. Ne usciremo migliori? Diventeremo lupi per altri uomini lupi? Sono i dilemmi in cui viviamo immersi. Che sia un cambiamento d’epoca, più che un’epoca di cambiamenti (Papa Francesco) anche i più ottimisti come la regina Elisabetta (“torneremo a incontrarci”) lo sanno.

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Possiamo continuare a crescere così o distruggeremo il pianeta e noi stessi? Oppure, “Fratelli tutti”? L’enciclica di Papa Francesco ha suscitato molto dibattito. Su queste colonne sono state analizzate in modo critico soprattutto alcune visioni economiche, che non ne sono comunque il centro. Fratres omnes è in realtà una sintesi intuitiva, o dovremmo dire pastorale, di quei fili e di quei dilemmi. Che sono in una certa, o larga, misura gli stessi di Nella fine è l’inizio. Solo che Francesco scrive come parla, e parla in modo diretto, sapienziale. Semplice e a un tempo ellittico, non sente il bisogno di puntellarsi con la filosofia e nemmeno l’economia. Giaccardi e Magatti invece procedono con il linguaggio degli studiosi, in cui lucidare bene un concetto è essenziale. Si affidano alle analisi e alle idee di altri studiosi per fare chiarezza e formulare ipotesi. Spesso persone che hanno anticipato i tempi, intuendo le crisi prima che scoppiassero.

 

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Non sappiamo, e non abbiamo perso tempo a chiedere, se vi sia un legame più diretto tra la l’enciclica di Francesco e il loro libro. Ma poiché è stato notato che l’enciclica non ha praticamente note al piede se non i rimandi ad altri testi di Francesco stesso, si potrebbe dire che certe formulazioni (“interindipendenza”, responsività”, “cura”) di Giaccardi e Magatti funzionerebbero bene da note al piede, per chi avesse bisogno di sincerarsi che nelle parole di Bergoglio non ci sono solo compassione e misericordia da parroco callejero, ma un preciso pensiero critico. Immagini e sentimenti, o concetti. Siamo più abituati alle immagini. Quando Francesco uscì da solo in preghiera sotto il cielo plumbeo di Piazza San Pietro, fu chiaro a tutti cosa intendesse evocare: nessuno di salva da solo, ma per salvarsi insieme occorre un cambiamento di mentalità e di comportamenti individuali accompagnati, però, anche dalla revisione di scelte e indirizzi che la nostra società economica e tecnologia ha operato.

 

Si può obiettare, ed è stato obiettato, che ‘ non funzionerà. Ma i temi posti dal libro dei due sociologi non sono più trascurabili. La società del rischio è un saggio del sociologo Ulrich Beck di ben 35 anni fa. Spiegava perché uno dei tratti distintivi delle nostre società sia il rischio: rischia l’imprenditore, rischia la scienza, abbiamo creato condizioni economiche e supporti tecnologici per rendere o produttivo il nostro continuo grande passo in avanti nel non noto. Senza, “non ci sarebbe alcuna spinta verso l’innovazione e la crescita”. Ci siamo autoconvinti che siano sempre rischi calcolati. Ma sempre più i rischi che ci prendiamo non riguardano solo un singolo settore o una attività, si ripercuotono su tutto. Anche sulla dimensione sociale, come i rischi generati da tensioni culturali o religiose: non c’è bisogno di fare esempi. E potremmo aggiungere: il rischio che ci siamo presi investendo poco nelle terapie intensive, scommettendo che non sarebbero mai servite.

 

Il Covid è solo il terzo choc globale che colpisce il mondo in meno di vent’anni: le Twin Towers e la guerra al terrore hanno significato blocco economico, restrizioni di sicurezza personale e di confini nazionali che hanno cambiato anche la nostra psicologia. Nel 2008 la crisi finanziaria ha squassato tutte le economie, ha fatto perdere sicurezze sociali. “Dopo il terzo choc globale la questione degli effetti inattesi del nostro modello di sviluppo non può essere rimossa”, scrivono gli autori, “se non si vuole che l’emergenza sia una sorta di patologico new normal che porta passo dopo passo verso una catastrofe finale, occorre sfruttare l’esperienza della pandemia, incorporando l’idea che i sistemi che abbiamo costruito sono tutti entropici, instabili e vulnerabili”.

 

Non è per nulla una lettura dalla parte dei catastrofisti, a meno di voler considerare catastrofisti tutti coloro che pensano che il problema non sia soltanto quello di trovare un vaccino. Così la pensa, per fare un esempio Angela Merkel. Bisogna iniziare con l’ammettere che il Covid non è un cigno nero. Così ci si è trovati in una emergenza che è anche una fase di “anomia”, di assenza di regole certe o sospensione delle leggi – quanta parte del dibattito pubblico è dedicata, spesso senza costrutto, alla “scoperta” o alla “minaccia” dello stato d’emergenza? Ci sono cose da aggiustare. C’è ad esempio da domandarsi quale punto di equilibro si può trovare tra comportamenti privati e pubblici sempre più individualizzati e la cessione di libertà che questi stessi comportamenti richiedono: ci lamentiamo della app Immuni ma i nostri dati sensibili sono registrati ovunque.

 

Uno dei temi centrali che percorrono il libro è il giudizio sui fattori che costituiscono, già prima dei tre choc, la civiltà d’occidentale. Che può essere definita, sospendendo il giudizio di valore, neoliberista. E che ha due pilastri: uno è la crescita economica sempre più determinata da sistemi tecnologici complessi; l’altro è la libertà sociale e individuale sempre più determinata da un individualismo che ha scardinato tutti i tradizionali elementi comunitaristi. (Se la Gran Bretagna ha creato un ministero per la Solitudine, ci sarà un motivo). E’ il tema, se vogliamo, dell’esito nichilista dell’occidente. Non è il focus centrale del libro, ma vale la pena rifletterci, anche perché è un tema da sempre molto caro a questo giornale: come interpretare (o bilanciare, o combattere) lo scontro in atto tra due tipi di “nichilismo” che minacciano tanto la convivenza quanto la democrazia. Da un lato il nichilismo individualista etico, quello dei super diritti garantiti dalle leggi; dall’altro il nichilismo individualista tribale, in cui ognuno pretende di fare semplicemente quel che vuole (no mask). In ogni caso, è il rapporto sociale, il prendersi cura collettivo, ad essere negato.

 

Si può dare la colpa alla “cattiveria dei tempi”, come direbbe Péguy, oppure alla loro arretratezza da rimuovere (tutto il dibattito sui generi, l’eutanasia, la cancel culture). In ogni caso non è sufficiente, si rischia di rimanere inchiodati alle petizioni morali o alle opzioni di principio, se non si riconosce che alla radice della “modernità liquida” e del suo scacco di fronte alla pandemia e ad altri guai ci sono due punti di partenza, due sentieri che si biforcano eppure, per dirla con Moro, seguono parallele convergenti. Quando nel 1987 Margaret Thatcher (la frase è citata nel capitolo “Libertà, sorveglianza, responsività”) disse “non esiste la società, esistono soltanto gli individui: uomini, donne e le loro famiglie”, sfatava ovviamente il tabù delle società iper regolate; ma indicava anche la strada di una certa idea di liberismo economico che nega alla radice la società comunitaria. In fondo è l’inizio di una catena che porta a Trump e a tutti i “first” che conosciamo. Compresa la divisione sociale in “bolle” o “tribù” (termine ben studiato da Maurizio Molinari) come unica appartenenza e negazione di ogni “totale”.

 

L’altro inizio, anni Sessanta, sta nella esplosione della cultura liberal di massa, che ha realizzato “l’idea di un Io ‘desiderante’, ordinato da una cornice neoilluministica a forte connotazione tecnocratica”. Il mercato, l’accesso a consumi illimitati (o in caso contrario la recriminazione di chi non vi accede), la rivoluzione digitale e le leggi che permettono ogni desiderio hanno insieme creato le condizioni per cui quei due sentieri così apparentemente differenti si riunissero: in una società insieme iper connessa e atomizzata, iper controllata e insieme anarchica, che ha prosciugato ogni nozione di interdipendenza solidale tra gli individui e i gruppi. Una società debole, però, per affrontare una crisi che colpisce tutto il pianeta (il cattivo dibattito su chi avrà “prima” per sé il vaccino). Come se ne esce? Basta guardare il clima di scontro sociale latente generato dalla pandemia per capire che non basta sorvegliare e punire gli uni o gli altri per creare un mondo differente. Possiamo dire che va bene così, persino davanti al Covid, all’isolamento, al fatto che abbiamo bisogno ed è “come se fossimo degli alluvionati”. Oppure possiamo chiederci se ci siano altre strade.

 

Possiamo ad esempio dire che una mano invisibile ci salverà, e tutto ripartirà bene, cose sostiene chi preferisce parlare di uno stress di sistema che si aggiusterà da solo. Non è escluso. Giaccardi e Magatti parlano invece di una “fine” prima di un inizio. Non troverete nel libro accenni alla “decrescita felice”, e nemmeno la parola, ma riflessioni su una crescita che tenga conto dell’equilibrio di tutti i fattori in gioco. E sarebbe però ottuso non accorgersi che molti segnali globali indicano proprio la necessità di superare l’età dell’atomizzazione. Lo scontro in corso alla Corte suprema americana sull’abolizione dell’Affordable Care Act non è forse lo scontro tra chi, anche in tempo di Covid, crede che basti la mano del mercato, in chiave individuale, per curare le persone, e chi invece, anche negli Stati Uniti, guarda ai sistemi universalistici europei che si stanno comportando molto meglio nella crisi?

 

La direzione che Angela Merkel ha indicato al suo paese e all’Europa, e che Ursula von der Leyen ha enunciato per l’Unione è quella di una mano molto visibile, in economia e non solo, perché solo attraverso una rinnovata solidarietà ci si può “salvare”. Del resto, non fu così per la Fed nel 2008, o per il “whatever it takes” di Draghi? Mani molto visibili, e una visione in cui le interconnessioni, l’uscirne insieme, le reciprocità sono parte essenziale di un nuovo modello tutto da inventare, e da mettere alla prova dei fatti. Non è necessario diventare “fratelli tutti”, quello è un messaggio religioso. Nessun politico lo pensa, nemmeno Merkel. Ma che non si esca da soli dallo choc della pandemia che ci ha rinchiusi in casa, in preda a una minaccia globale che non sappiamo nemmeno misurare, è evidente.

 

Giaccardi e Magatti non offrono soluzioni chiavi in mano. Individuano alcune parole chiave su cui si può lavorare. Per capire che da una società basata sul solo rischio non calcolabile (o affidato a degli algoritmi, che fa un po’ lo stesso come abbiamo sperimentato) si deve passare a una società “resiliente”; che dallo choc di un confinamento e di un distanziamento che mette in crisi le nostre connessioni bisogna passare a un’idea di “interindipendenza”; che oltre alla società iper controllata cui si oppone un anarchismo violento ci può essere una “responsività” personale e sociale; che il nostro senso di onnipotenza divenuto fragile ha bisogno di un nuovo modello di “cura”; che all’angoscia si risponde con con una tensione positiva a un nuovo inizio. tenendo presente, come diceva VaclavHavel, che “la speranza non è per nulla uguale all’ottimismo”.

 

Non c’è bisogno di volersi tutti fratelli, appunto, per pensare a risposte diverse a quelle che fin qui ci siamo dati. Nella fine è l’inizio non è un formulario pratico, si occupa alla fine di un “ponte” che ancora non c’è. Ma consiglieremmo a chiunque di confrontarsi con le idee di Giaccardi e Magatti, e a qualunque politico in cerca di un percorso per uscire dallo choc – ovviamente a chi ne voglia uscire bene, non a chi spera di approfittarne per fare saltare tutto il banco.

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