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Spazio Okkupato

Storia della bontà

Giacomo Papi

Un libro spiega come l’umanità riesca sempre a dare il meglio di sé nei momenti difficili (pandemie incluse)

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In giorni di contagi, liti, divieti e inviti pubblici alla denuncia può essere di conforto la lettura di “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità” di Rutger Bregman, appena pubblicato da Feltrinelli. Il saggio – l’autore ha 32 anni, è olandese e infatti assomiglia a un giocatore dell’Ajax – è un antidoto efficace al pessimismo di “Sapiens”, il megabestseller mondiale dello storico israeliano Yuval Noah Harari (che però in quarta di copertina concede: “Questo libro mi ha fatto vedere l’umanità sotto una nuova luce”). Una specie di testo fondativo del buonismo (sempre sia cosiddetto) basato su una miniera di storie formidabili, esperimenti sociali e – direi – umorismo, che infonde speranza nel futuro, fiducia nel presente e indulgenza verso il passato. La tesi di Bregman è semplice: l’uomo è fondamentalmente buono e dà il meglio di sé nei tempi difficili, nelle guerre come nelle epidemie.

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In giorni di contagi, liti, divieti e inviti pubblici alla denuncia può essere di conforto la lettura di “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità” di Rutger Bregman, appena pubblicato da Feltrinelli. Il saggio – l’autore ha 32 anni, è olandese e infatti assomiglia a un giocatore dell’Ajax – è un antidoto efficace al pessimismo di “Sapiens”, il megabestseller mondiale dello storico israeliano Yuval Noah Harari (che però in quarta di copertina concede: “Questo libro mi ha fatto vedere l’umanità sotto una nuova luce”). Una specie di testo fondativo del buonismo (sempre sia cosiddetto) basato su una miniera di storie formidabili, esperimenti sociali e – direi – umorismo, che infonde speranza nel futuro, fiducia nel presente e indulgenza verso il passato. La tesi di Bregman è semplice: l’uomo è fondamentalmente buono e dà il meglio di sé nei tempi difficili, nelle guerre come nelle epidemie.

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Bregman dimostra che l’enfasi sulle cattive notizie – quella che il teorico della comunicazione George Gerbner definì la “sindrome del mondo cattivo” – riesce a oscurare una verità che emerge da una miriade di evidenze storiche e scientifiche: il genere umano, per natura, non è affatto assetato di sangue. L’homo sapiens, per Bregman, è “l’animale che arrossisce” ed è questa disposizione all’empatia e alla vergogna che ci avrebbe permesso di evolverci più di altre specie umane, a cominciare dai Neanderthal che, possedendo un cervello più grande, erano molto più intelligenti e creativi di noi.

 

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L’attitudine umana a collaborare e imparare deriverebbe, cioè, anche dall’abilità di percepire le emozioni degli altri attraverso una serie di caratteristiche fisiche uniche, come il bianco degli occhi (“Tutti gli altri primati, e si parla di oltre duecento specie, producono un pigmento, la melanina, che rende tutto l’occhio più scuro. In tal modo nascondono la direzione dello sguardo, come i gangster con gli occhiali da sole”) o l’arco sopraccigliare poco pronunciato (“Possiamo usare le sopracciglia in modi vari e sfumati”. Aggiungerei: anche con la mascherina).

 

Il libro procede come un videogioco alla confutazione di luoghi comuni e all’abbattimento di mostri sacri tra cui “Il declino della violenza” di Steven Pinker, “Il gene egoista” di Richard Dawkins e “Il signore delle mosche” di William Golding, l’autore che più di ogni altro per Bregman ha contribuito ad affermare la “teoria della patina”, l’idea cioè che la civiltà sia una crosta sottile che va in frantumi appena la situazione peggiora, liberando la bestialità nascosta di ognuno di noi. A partire da poche righe contenute in un rapporto scritto da Susanna Agnelli negli anni Ottanta, Bregman ricostruisce per esempio la “vera storia” de “Il Signore delle mosche”: nel giugno del 1965 sei studenti di un convitto anglicano delle isole Tonga presero una barca per andare a pescare e naufragarono su un’isola deserta dove rimasero per più di un anno senza massacrarsi come i protagonisti di Golding, ma collaborando e rispettando il patto di “non litigare mai”.

 

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È una storia edificante, ma non dimostra nulla (se non che l’esperimento mentale di Golding non dimostra niente). Il libro diventa vertiginoso quando confuta famosi esperimenti di psicologia sociale (come quelli di Philip Zimbardo e Stanley Milgram sulla nostra naturale disposizione al sadismo), ricostruisce il processo a Adolf Eichmann (che non era affatto un burocrate che eseguiva gli ordini, ma un fanatico convinto di agire in vista di un bene superiore), descrive il comportamento solidale delle comunità sotto attacco (come durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale o nelle epidemie) o quello dei soldati in battaglia (più dell’80 per cento non spara, finge solo di farlo). Senza naturalmente ignorare l’“elefante nella stanza”, l’innegabile presenza del male nella storia umana.

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Basandosi sui segni di violenza rimasti sulle povere ossa dei nostri antenati, Bregman si convince – come Harari – che la propensione alla violenza si sia sviluppata dopo l’invenzione dell’agricoltura, quando nacquero proprietà privata e patriarcato, un periodo che però, commisurato alla storia dell’umanità, varrebbe quanto due minuti rispetto all’intera giornata. Al di là di questo rivendicato rousseaunesimo, il libro convince quando analizza il ruolo dell’ossitocina che “aumenta l’affetto per gli amici, ma rafforza anche l’avversione per gli estranei. Più che l’ormone della fratellanza universale, l’ossitocina è l’ormone del ‘prima i nostri’”.

 

O quando prova a spiegare che la vera ragione della nostra propensione alla cattiveria è la comodità: credere nel male richiede meno fatica che credere al bene perché ci solleva da ogni responsabilità. Pensare che gli altri siano cattivi ci autorizza a essere cattivi anche noi. Gli esperimenti citati da Bregman convergono nell’indicare che la cattiveria nasce soprattutto dal conformismo e la bontà dal senso della vergogna. Ma anche che alla tentazione del male si può resistere, perché “la resistenza è un apprendimento”. Ed è qui che il legame tra bene e cultura diventa evidente.

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