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Spazio okkupato

La fotografia, da istante catturato da chi guarda a messa in scena di chi si mostra

Giacomo Papi

Il magnifico Cartier-Bresson in mostra a Venezia e l'invenzione di oggi: i selfie

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Tornando da Venezia, dopo avere visto a Palazzo Grassi la magnifica mostra di Henri Cartier-Bresson “Le Grand Jeu”, avevo ancora negli occhi la bellezza incomparabile degli estranei incontrati per caso: i bambini di Madrid, Roma, Palermo, le suore a Lourdes, un vecchio eunuco a Pechino, un padre che solleva la figlia con una mano in Armenia, due prostitute ad Alicante, due ladri a Bruxelles. In treno ero ancora abbagliato quando ho avvistato un padre e un bambino in canottiera che si parlavano all’orecchio e si abbracciavano su una panchina della stazione di Padova. Istintivamente ho tirato fuori il telefonino e ho cominciato a filmare. Ne è venuto fuori un video di pochi secondi che, mentre il treno riparte, racconta una piccola storia: due persone in un momento in cui erano vive e vicine. L’ho postato sui social, provando un lieve senso di colpa. Sapevo di condividere un momento di intimità rubato, ma sentivo che quell’infrazione sarebbe stata un po’ meno grave che tenermi per me qualcosa di bello. Il video ha ricevuto molti like e commenti entusiasti.

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Tornando da Venezia, dopo avere visto a Palazzo Grassi la magnifica mostra di Henri Cartier-Bresson “Le Grand Jeu”, avevo ancora negli occhi la bellezza incomparabile degli estranei incontrati per caso: i bambini di Madrid, Roma, Palermo, le suore a Lourdes, un vecchio eunuco a Pechino, un padre che solleva la figlia con una mano in Armenia, due prostitute ad Alicante, due ladri a Bruxelles. In treno ero ancora abbagliato quando ho avvistato un padre e un bambino in canottiera che si parlavano all’orecchio e si abbracciavano su una panchina della stazione di Padova. Istintivamente ho tirato fuori il telefonino e ho cominciato a filmare. Ne è venuto fuori un video di pochi secondi che, mentre il treno riparte, racconta una piccola storia: due persone in un momento in cui erano vive e vicine. L’ho postato sui social, provando un lieve senso di colpa. Sapevo di condividere un momento di intimità rubato, ma sentivo che quell’infrazione sarebbe stata un po’ meno grave che tenermi per me qualcosa di bello. Il video ha ricevuto molti like e commenti entusiasti.

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Naturalmente c’è stato anche qualcuno – non tanti, ma significativi – che ha protestato: “Privacy di persone. Rubata”, “Speriamo tu, o chi stesse riprendendo, abbia chiesto il permesso di registrare un video. O forse eri tu e il bambino tuo figlio?”. Avevano ragione, ovviamente. Una delle sezioni più belle della mostra – che raccoglie 300 fotografie selezionate da Annie Leibovitz, Wim Wenders, Javier Cercas, Sylvie Aubenas e François Pinault – è quella in cui Leibovitz racconta il suo unico incontro e il metodo di lavoro di Cartier-Bresson, che ogni giorno camminava chilometri andando a caccia: “Non scattava quelle foto passando per caso in un luogo, ma le otteneva perché ci restava a lungo, osservava e studiava la situazione. E accadeva che l’immagine si materializzasse sotto i suoi occhi. A volte, però, doveva andare a cercarla”. Cartier-Bresson, insomma, rubava istanti agli estranei e poteva farlo perché il concetto di privacy non esisteva. Fino a sessant’anni fa era raro essere rappresentati e il sentimento dell’intrusione era meno forte della curiosità e della vanità di potersi guardare e restare visibili. Oggi l’opera di Cartier-Bresson sarebbe fuori legge. Se non si è iscritti all’ordine dei giornalisti e non c’è diritto di cronaca, non si possono fotografare sconosciuti, soprattutto i bambini, a meno di non avere la liberatoria dei genitori, o che siano così poveri – migranti, affamati, lavoratori del sesso – da non essere nelle condizioni di esercitare diritti. (Ed è curioso che fotografare la disperazione e la morte ci appaia meno invasivo che fotografare la felicità o l’amore. Ha scritto Susan Sontag: “Ogni  fotografia è un memento mori. Fare  una fotografia  significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità  e  della mutabilità  di un’altra persona”. Ogni fotografia, cioè, è tecnicamente la foto di un morto). La fotografia è stata perturbante fin dalla sua nascita. In Piccola storia della fotografia Walter Benjamin racconta che i soggetti dei primi daguerrotipi temevano che quei piccoli sé ricambiassero il loro sguardo. Ogni fotografia è un’espropriazione e una cattura. Nel Medioevo, durante le processioni, i fedeli alzavano specchietti per imprigionare un riflesso delle reliquie del santo. Il concetto di privacy regolamenta, insomma, sotto forma di diritto, il senso di perturbamento che gli umani hanno sempre provato di fronte all’immagine di sé. E contemporaneamente afferma che questo rapporto è cambiato per sempre perché oggi sentiamo che la nostra immagine ci appartiene come ci appartiene il corpo e la vita. Il diritto di essere si è allargato al diritto di apparire.

 

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C’è un’invenzione che racconta questo passaggio: il selfie. Il primo telefonino con doppia telecamera fu lo Z1010 prodotto da Sony Ericsson nel 2004, ma il selfie diventò di massa dal 2010, dieci anni fa, quando Apple lanciò l’iPhone 4. Fu una delle più grandi rivoluzioni culturali della storia: il fatto di potere rivolgere l’obbiettivo verso di sé affermò per la prima volta che lo spettacolo non è soltanto il mondo, è ognuno di noi. E che esiste un diritto a mettersi in scena e che si può vietare agli altri di farlo. Il problema è che il diritto all’immagine cancellerebbe la maggior parte delle immagini con cui abbiamo raccontato il Novecento: il miliziano di Capa, la bambina nuda nel napalm in Vietnam, gli schiavi della Sierra pelada di Salgado, gli occhi verdi della ragazza afghana di Steve McCurry, i passanti di Vivien Maier, il cadavere di Che Guevara o degli innumerevoli morti per mafia. Non esiste una sola foto dei morti americani in Iraq. Le uniche immagini che rimangono sono quelle del 2007 dei torturatori di Abu Ghraib che non a caso si misero in posa. Con il selfie la fotografia cessa di essere un istante catturato da chi guarda per diventare una messa in scena di chi si mostra. E’ un passo in avanti, ma ha una conseguenza: il racconto fotografico della storia rimarrà, soprattutto, nella forma dell’auto-rappresentazione.

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