PUBBLICITÁ

Solo il sensazionale è reale

Simonetta Sciandivasci

Lì dove c’erano consenso e dissenso ora ci sono stupore, pianto, riso e rabbia. L’importante è sentire

PUBBLICITÁ

L’emozione è da poco, dà poco, non basta più. La cerimonia continua, l’ininterrotto vernissage che è diventato la nostra vita, l’ha sfiammata, denuclearizzata. E ci ha incallito il cuore, spento lo sguardo, anestetizzato lo stupore, complicato l’attenzione. Tutto è ricorrenza, evento imperdibile e irripetibile che merita di venire documentato per essere prima condiviso e poi archiviato: il primo giorno di scuola di figli, nipoti, vicini di casa, estranei simpatici, forse anche empatici; il cambio di stagione e quello di scrivania; un intervento chirurgico; una cena di pesce; un incidente domestico per fortuna senza morti; un tramonto. Cerchiamo disperatamente di attirare l’attenzione e di più, di catturarla, tenerla ferma come si fa coi conigli selvatici. Una cosa o è evento o non è. O è epocale o non è. O ti cambia la vita o non è. E così facciamo come certi commercianti che non tolgono mai le insegne natalizie luminose dalle vetrine perché tanto il Natale tornerà presto: rimaniamo vestiti a festa anche in tempo ordinario, di vigilia, di novena, che a sua volta trasformiamo in un tempo di festa. L’abitudine tra noi è l’esaltazione, anche se adesso non la proviamo più, e allora la recitiamo, e speriamo così di rievocarla, rinvenirla. In fondo, ci manca.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


L’emozione è da poco, dà poco, non basta più. La cerimonia continua, l’ininterrotto vernissage che è diventato la nostra vita, l’ha sfiammata, denuclearizzata. E ci ha incallito il cuore, spento lo sguardo, anestetizzato lo stupore, complicato l’attenzione. Tutto è ricorrenza, evento imperdibile e irripetibile che merita di venire documentato per essere prima condiviso e poi archiviato: il primo giorno di scuola di figli, nipoti, vicini di casa, estranei simpatici, forse anche empatici; il cambio di stagione e quello di scrivania; un intervento chirurgico; una cena di pesce; un incidente domestico per fortuna senza morti; un tramonto. Cerchiamo disperatamente di attirare l’attenzione e di più, di catturarla, tenerla ferma come si fa coi conigli selvatici. Una cosa o è evento o non è. O è epocale o non è. O ti cambia la vita o non è. E così facciamo come certi commercianti che non tolgono mai le insegne natalizie luminose dalle vetrine perché tanto il Natale tornerà presto: rimaniamo vestiti a festa anche in tempo ordinario, di vigilia, di novena, che a sua volta trasformiamo in un tempo di festa. L’abitudine tra noi è l’esaltazione, anche se adesso non la proviamo più, e allora la recitiamo, e speriamo così di rievocarla, rinvenirla. In fondo, ci manca.

PUBBLICITÁ

 

Siamo come gli adolescenti ricchi di certi film e/o parabole: abbiamo avuto tutto troppo presto e, stuccati annoiati glaciali, cerchiamo disperatamente qualcosa che ci accenda, ci dia gusto. Siamo partecipi sempre e coinvolti mai. Non ci scambiamo opinioni, ma sensazioni. Non cosa pensiamo, ma cosa proviamo. Non una frase, ma un cuore. Non un’emozione, ma una reazione. Non un’emoticon, ma una reaction. Dove prima c’era il “mi piace” e venne poi anche il “non mi piace”, dove c’erano il consenso e il dissenso, ora ci sono l’abbraccio, lo stupore, il pianto, il riso, la rabbia. Anche le conversazioni private, poiché reagenti, sono reagibili, e così nell’ultimo paio d’anni abbiamo preso a segnalare, selezionando un cuore, o un pollice in su, o un pollice in giù, o una fiamma, durante uno scambio di battute, quello che ciascuna frase del nostro interlocutore suscita in noi: soltanto dopo rispondiamo, e nemmeno sempre, a volte la reaction è sufficiente, sigilla la posta, chiude il confronto, il capitolo, la questione. Quando non chiude, guida: se il nostro interlocutore reagisce con un cuore, continuiamo la conversazione in un modo diverso da come faremmo se reagisse con un pianto. Ogni parola è illuminata dalla conseguenza che ha su chi la legge e così non è il senso a essere centrale, bensì la sensazione. Ogni risposta che riceviamo ci appare con accanto uno spettro di react possibili, che stanno lì a ricordarci che dobbiamo reagire, le parole sono importanti, svegliatevi poeti spegnete la tivù, a niente sia consentito di scivolare via, tutto è infiammabile (quindi niente lo è e infatti vagoliamo sempre di più come in quel video di Moby di qualche anno fa, “Are You lost in the world like me”, con la testa ficcata dentro il telefono, incapaci di alzarla pure se un altro ci tira per la collottola).

 

PUBBLICITÁ

La reazione fa spettacolo, audience, engagement anche se sarà la futura grande estinta, mentre noi ciondoliamo in questo paradosso: siamo irritabili come il culetto di un neonato, ma per accendere il nostro interesse servono nuovi alfabeti, luci stroboscopiche, animazioni, frecce, effetti speciali, fuochi d’artificio. I reaction video, un giochino molto diffuso tra gli youtuber, non sono mai stati tanto popolari come in questi mesi. Consistono in questo: una o più persone si filmano mentre spacchettano un regalo, mangiano un panino, indossano un paio di scarpe nuove, ascoltano una canzone, guardano un film. Raramente quel film o quelle scarpe o quel panino vengono inquadrati: lo show non sono loro, ma quello che scatenano in chi ne fruisce. Un oggetto diventa desiderabile se mi viene mostrato cosa produce in chi lo usa. E’ l’opposto della disintermediazione, ma ne conserva l’autarchia, diciamo pure la libertà, poiché cattura, o almeno così promette di fare, l’effetto immediato che i fenomeni hanno su di noi e, in questo senso, sono una modalità pubblicitaria quasi onesta, leale. Ad agosto il New York Times ha scritto di due fratelli gemelli, i Williams, che stanno diventando molto popolari perché, attraverso i loro react video, alcune vecchie canzoni sono entrate in classifica su Amazon. Nonostante il loro canale YouTube conti poco meno di 600 mila iscritti, quando hanno condiviso il clippino nel quale ascoltavano “In the air tonigh” di Phil Collins, come sempre interrompendola, inframezzandola con le loro riflessioni, facce, faccine, faccette, faccione, canticchiandoci e fischiettandoci sopra, con la camera puntata sulle loro facce schiacciate sullo schienale di due poltrone dalle quali sembra non si alzino mai, quella canzone semi sconosciuta ai millennial, e del tutto ignorata dalla Gen Z, è diventata in meno di una settimana il brano più ascoltato su iTunes. Mica male. Noi lì a studiare metodi di divulgazione semplificati, per sonnambuli, per dummies, per ciucci e presuntuosi, a codificare nuovi modelli di informazione, a cercare il modo più virtuoso per incrociare e ibridare social network ed enciclopedie, TikTok e tg, e loro lì a macinare risultati che noi non otterremmo nemmeno con un esercito di Piero Angela.

 

E dire che c’era già tutto, o quasi tutto, in “Harry ti presento Sally”, quando Meg Ryan simula un orgasmo da Kat’s per dimostrare a Billy Crystal che un uomo non sa distinguere una donna che gode da una che recita, e la sua vicina di tavolo chiede alla cameriera di portarle “quella che ha preso la signorina”. C’era già tutto, o quasi tutto, in “The Artist in present”, quando Marina Abramovic se ne stava seduta al centro di una sala del MoMa di New York e aspettava che le persone andassero a sedersi davanti a lei, e la performance artistica, il suo risultato, consisteva in cosa suscitava in lei il guardare negli occhi uno sconosciuto. In entrambi i casi, una sensazione guidava un’azione, esponeva un significato, intavolava una trattativa, smuoveva una scelta. In entrambi i casi, però, c’era un’interazione fisica concreta, reale. Ed è quella interazione che noi abbiamo preso a robotomizzare, meccanizzare, di fatto sostituire. Non sappiamo se davvero una nostra frase fa sorridere la persona alla quale l’abbiamo inviata e che ha risposto reagendo con una faccetta che sorride. La reaction non è un’emoticon, ma usa le emoticon per esprimersi. E s’incunea sulla frase stessa, quasi cambiandola, di certo allargandola: non appare sotto, come una risposta qualsiasi, ma sopra. La riveste, la inguaina. Se le chat fossero disadorne, se tra noi potessimo scambiarci soltanto parole, cosa accadrebbe? I fraintendimenti avrebbero le medesime possibilità di raddoppiare e dimezzarsi, perché cuori, fiori, adesivi, gif hanno preso a sostituire le parole, assumendone i limiti. La portata emozionale, invece, quasi certamente subirebbe un tracollo. Per noi che di emotività e sensazionalismo non ne possiamo più, per noi che assistiamo ogni giorno a esagerazioni e distorsioni di tutto, il reale s’è fatto più che insopportabile, indistinguibile, anonimo, secco. Laddove non c’è strepito, decolorazione e ritinteggio, sofisticazione, stratificazione, per noi sembra non esserci che sbadiglio. Avvezzi come siamo alla correzione in favore di sollucchero, aumentiamo la realtà, talvolta estremizzandola, talaltra reinventandola quasi completamente.

 

PUBBLICITÁ

La settimana scorsa, Ashley Graham, una delle modelle curvy più amate, ha condiviso su Instagram un video nel quale racchiudeva in un cuore le sue smagliature: è l’esemplificazione perfetta di come anche il body positive sia una cornice, una visione istruita da un’intenzione precisa, una narrazione a fini emotivi. Eppure, il body positive (alcune sue forme, almeno) pensiamo sia funzionale all’emancipazione dai canoni estetici, che sia il mezzo più efficace per convincere chi ha un difetto fisico più o meno invalidante, a trasformarlo se non in un’arma di seduzione, almeno in uno scudo dai pregiudizi. Pensiamo che sia e promuova un’esibizione naturale, senza filtri, senza messaggi, senza pregressi, annessi, connessi e invece diventa sempre di più storytelling, comunicazione orientata. Non siamo davvero capaci di amare un corpo grasso o brutto o sbilenco o macchiato o bizzarro se non ci mettiamo di fianco uno sponsor che santifichi. Anche degli animali, che sono la nostra più grande passione, aumentiamo la realtà, di modo da includerli nella nostra e, insieme, includere noi stessi nella loro. Li colonizziamo perché non ne accettiamo l’alterità, il mistero, il pericolo. Coabitiamo con loro e, di più, conviviamo con loro, e un rovesciamento del nostro punto di vista basterebbe a mostrarci come loro spasimanti, inseguitori, dipendenti: se a un uomo occidentale, un suo simile che porta a spasso il cane appare nient’altro che questo, cioè un altro essere umano che porta a spasso il cane, a un aborigeno può apparire un cane al quale un uomo cammina legato (è un esempio che faceva Paolo Nori per spiegare che la letteratura ha il potere di rovesciare il significato solito delle cose che abbiamo davanti, semplicemente cambiando il punto di vista da cui le si osserva).

PUBBLICITÁ

 

Per salvare il pianeta dal disastro e la razza umana dall’estinzione, la teorica femminista Donna Haraway propone che nel post Antropocene, che lei chiama Chululucene, uomini e donne smettano di creare famiglie e generino parentele e diano alla luce i “bambini del compost”, che s’otterrebbero iniettando materiali cellulari di un animale in fase di trasformazione, magari una farfalla durante la schiusa, in un essere umano che pure si trovi in una fase di passaggio, magari durante lo sviluppo fetale, l’allattamento o l’adolescenza. Nascerebbero così i sembionti: umani non soltanto umani e insetti non solamente insetti, che abiterebbero un mondo che Haraway non dipinge con i colori apocalittici della fine della specie, bensì come un creato persino idilliaco, al cui interno gli equilibri tra esseri viventi si fondino non a partire dalle gerarchie, ma dalle alleanze e, meglio ancora, dalle parentele. Facciamo qualcosa di simile, naturalmente non per rifarci ad Haraway, quando infiliamo la testa di un gattino in una fetta biscottata, quando vestiamo un cane con i nostri calzini, quando istruiamo un criceto a zampettare su un ukulele? Stabiliamo con loro quell’amicizia che per Haraway deve governare le relazioni tra sembionti, sia tra quelli che si accoppiano sia che tra quelli che non lo fanno? Forse. Ma la domanda è un’altra: sopportiamo gli animali, se sono soltanto animali? Ci emozionano davvero i cani e i gatti e i cavalli e i delfini e le tartarughe e le centinaia di bestie e bestiole che ogni giorno cerchiamo su Instagram, per ammirarne le prodezze, e sorridere ritrovando in loro una macchia umana che non c’è ma che ci viene o suggerita dal punto di vista dell’autore del video e della foto? Centinaia di profili animalisti o pseudo animalisti condividono foto ritoccate di squali con gli occhi dolci, ricci che dormono nelle culle di neonati, modelle con pinne da sirena che nuotano accanto alle orche assassine. Non accade soltanto perché da sempre l’essere umano cerca di addomesticare tutta la catena alimentare, per sottometterla, umiliarla, possederla. C’è di più. C’è un ricorso all’enfasi retorica, al condimento, alla manipolazione, all’addizione sensazionale, all’esperienza immersiva. Il delfino così com’è lo abbiamo visto così tante volte che ci ha stufati: vogliamo di più. Vogliamo che rida, vogliamo che esulti, vogliamo che ci accarezzi, e vogliamo che lo faccia in mare aperto, perché amiamo l’autenticità e detestiamo la cattività e gli zoo e gli acquapark, per carità. I tramonti, così come sono, non ci soddisfano più: vediamo quelle strisce d’amaranto ogni giorno, più e più volte al giorno, dalla finestra, in tv, su Tik Tok, su Instagram: li vogliamo più audaci, interstellari, accattivanti, inaspettati, magari pericolosi. Vogliamo che ci emozionino, ovverosia che ci sveglino, ci smuovano, ci scuotano, perché da soli non ci riusciamo più, ci siamo consumati gli occhi, il cuore, lo stupore.

PUBBLICITÁ

 

Gli asiatici conoscono bene questa nostra fame di eccezionalità, di estremo, di reattività, e hanno creato un business milionario mostrando la cosa più banale del mondo, uomini e donne che mangiano, e che però lo fanno in modo scomposto, pantagruelico, quasi inumano, avventandosi su portate abnormi che consumano velocemente e rumorosamente (più rumore fai, più guadagni). In questi video, i mukbang, il divoratore guarda in camera, parla con il pubblico, ci interagisce trasmettendogli la sua esperienza, che così si pone in un punto equidistante tra virtuale e carnale, un punto verso il quale convergono molti dei nostri tentativi di fare dei mezzi con i quali comunichiamo organi vivi, agenti patogeni o benefici e soprattutto estremità sensibili attraverso le quali sperimentare una nuova prossimità con l’altro. Quando cominciarono a diffondersi le prime mostre immersive non ci facemmo troppo caso, ma stavamo sin da allora cominciando a dire che i nostri sensi erano stanchi, che per godere di un quadro di Van Gogh i soli occhi su una sua tela non ci bastava: volevamo entrare in una stanza dove quel quadro venisse proiettato, con le luci in led e i soffitti oscurati e il cielo finto, e ci circondasse, si esplodesse intorno, non ci lasciasse scampo, perché altrimenti ci saremmo distratti. Siamo accidiosi anonimi, piromani eppure ignifughi, sentimentali asintomatici. Ci cerchiamo su app di dating dove ci si conosce senza vedersi in foto e leggersi in bio, ma scambiandosi note vocali, perché rivogliamo il calore, ci piace la trasmissione da telefono a telefono, la preferiamo a quella corpo a corpo, che peraltro aizza focolai virali. Ci facciamo sentire. Sentire belli, sentire quelli che ti fanno sognare, ti fanno allegria, malinconia. Fammi sentire bella, bella come il mare.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ