Reazioni a catena

Che cosa insegnano (su chi li fa) i reaction video che spopolano su YouTube

Simonetta Sciandivasci

Dalle riprese dell'inconsapevole Marina Abramovic fino ai Williams, due gemelli dell'Indiana che macinano visualizzazioni, i filmati che mostrano le reazioni si sono rivelati funzionali alla mutazione

I reaction video sono una delle molte specialità degli youtuber, usano molto da tempo, anche da prima di loro, da prima di YouTube, da prima di Internet. Si fanno così: guardi un film, ascolti un disco, leggi un verso, mangi un panino, apri il giornale (fateci sognare), rispondi al telefono, e ti filmi, così che a naviganti e posteri e seguaci eccetera resti testimonianza di come hai reagito a quel film, disco, verso, panino, giornale, che espressione ti si è dipinta sul viso, quale movimento hai fatto, che suono hai emesso. Direte: chissenefrega. Calmi. In fondo, e ci scusino gli ortodossi, erano reaction video anche i filmati tratti da “The Artist is Present”, la performance indimenticabile di Marina Abramovic che, seduta in un padiglione del Moma, guardava chi andava a sedersi difronte a lei (a un certo punto arrivò Ulay, il suo grande amore, e lei pianse e gli tese le mani), oppure, più arditamente, si possono considerare reaction video i quattro minuti di Warhol che mangia un panino del McDonald’s, e alla fine dice “Mi chiamo Andy Warhol e ho appena finito di mangiare un hamburger”. Naturalmente, né l’una né l’altro avevano intenti da influencer, come invece è per gli youtuber, ma la meccanica era più o meno la stessa: mostrare una reazione, perché nella reazione siamo liberi, incontrollati e incontrollabili – pensate alla macchina della verità, che stabilisce chi mente dal monitoraggio della tenuta psicofisica di un teste all’interrogatorio. La reazione, inoltre, mostra meglio di teorie, studi, analisi fenomenologiche ed estetiche, che l’essere umano è anima e corpo insieme, e baci al dualismo cartesiano.

    

    

Alcuni anni fa qualcuno scrisse che i reaction video erano un cancro, perché erano vacui, inutili, persino offensivi nei confronti di chi, invece, su YouTube s’affaticava a portare contenuti studiati e confezionati, con il doppio onere di far sì che non lo sembrassero. Poi venne l’internet dell’autenticità e della competenza, contenutista e serio, persino attivista militante, e i ventenni presero lezioni da Emma Chamberlaine, una delle prime a mostrarsi in pigiama e senza trucco, e a lavorare alla postproduzione dei suoi contenuti di modo che fossero perfetti, che avessero ritmo e suspense, e che fossero, come si dice, esperienziali e ispiranti, motivanti. Venne la generazione degli adolescenti virtuosi, moralisti, puristi, intransigenti, fieri, i temibili GenZ. E i reaction video si sono rivelati funzionali alla mutazione. Due di cui si fa un gran parlare nelle ultime settimane sono I Williams, fratelli gemelli dell’Indiana (il loro canale si chiama TwinsthenewTrend), che pur non avendo un seguito plateale (solamente 583 mila iscritti), macinano visualizzazioni notevoli (l’ultimo video che hanno condiviso ne ha 7 milioni) e soprattutto fruttuose.

   

   

Il mese scorso hanno ascoltato “In the Air tonight” di Phil Collins (il video si chiama “First Time hearing Phil Collins”, perché la magia così raddoppia: è la prima volta che faccio questa cosa, guardatemi, commuovetevi con me) e migliaia di ragazzini hanno scoperto Phil Collins e quella canzone meravigliosa, e l’hanno scaricata, condivisa, canticchiata su Tik Tok, consegnandola a un pubblico che, altrimenti, non avrebbe mai raggiunto. Il 2 agosto, il pezzo era il secondo brano più ascoltato di iTunes. Non avrebbe potuto tanto neanche un selfie di Ferragni con addosso Face Value, il disco che contiene quella canzone (era il 1981, i millennial cominciavano a nascere e Phil Collins pubblicava il suo primo album solista). Il New York Times ha notato che le canzoni che questi due gemellini ascoltano e commentano e fischiettano e canticchiano in favore di telecamera, sono per la maggior parte di artisti bianchi. Loro sono neri, nessuno può accusarli di preferenze suprematiste e sanno che questo rappresenta un vantaggio e pure una novità: di solito, soprattutto in musica, i neri sponsorizzano i neri, e guai ai bianchi che s’azzardano ad accostarsi ai generi loro propri. Così, due ragazzini dimostrano che le bolle degli adulti sono fatte di calce e che però loro sanno come farle comunicare, avvicinarle su un piano simbolico e monetizzare l’intera operazione.

   

E noi lì che ci preoccupavamo di come insegnare ai ventenni che prima di Cardi B c’è stata Etta James, noi lì a pianificare podcast con Barbero e Angela per salvare questi poveri ragazzi dalla parcellizzazione dei saperi, mentre quelli l’antidoto lo stavano trovando nel veleno.

 

Di più su questi argomenti: