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Il fascino spento del borgo

Michele Masneri

L’estate autarchica tra isole e altri luoghi incontaminati. Colpa del lockdown, meglio le città inquinate

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Ho visto il paese reale: fa schifo (cit). L’estate autarchica finisce, assai dolcemente: quella in cui siamo usciti dalle nostre bolle e abbiamo riscoperto l’Italia. Ecco il bilancio dunque di una stagione claustrofobica vissuta tra paesini, borghi, province, tutto quanto vagheggiavamo durante i mesi del lockdown (e da cui siamo scappati da piccoli). Ci si è divisi in due, chiaramente: chi ha sfidato tamponi e superstizioni e si è avventurato verso l’esotico estero (cioè, fondamentalmente, a Formentera e in Grecia), e chi è rimasto a casa, in preda a complessi pre-moderni, ha voluto dimostrare a tutti – in primis, a sé stesso – che l’Italia è un posto meraviglioso. E però sarebbe difficile immaginarsi Formentera e Antiparos come un vero estero: sono spiagge, generalmente costellate da italiani, quindi sempre Italia, è, anzi Sardegna, ma coi souvlaki e un po’ di esotismo. La differenza è che chi si è avventurato in quest’estero addomesticato non ha esagerato con post e stories; sì, la spiaggia, sì, l’acqua azzurra, magari fotografata dal barchino o dal gommone. Ma non si è spinto (grazie, davvero) fino alla vanteria fotografica del piccolo borgo e soprattutto dell’indotto enogastronomico. Chi è rimasto in Italia invece per sopperire alla vanteria dell’Estero ha invaso l’etere di borghi campanili pievi, caciotte babbà cannoli, dispute tra arancini e arancine, gozzi e gozzetti e barchini, riscoperta di antiche tradizioni giustamente dimenticate. L’Italia è un paese meraviglioso! (come dicono i cartelli autostradali verso le città d’arte).

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Ho visto il paese reale: fa schifo (cit). L’estate autarchica finisce, assai dolcemente: quella in cui siamo usciti dalle nostre bolle e abbiamo riscoperto l’Italia. Ecco il bilancio dunque di una stagione claustrofobica vissuta tra paesini, borghi, province, tutto quanto vagheggiavamo durante i mesi del lockdown (e da cui siamo scappati da piccoli). Ci si è divisi in due, chiaramente: chi ha sfidato tamponi e superstizioni e si è avventurato verso l’esotico estero (cioè, fondamentalmente, a Formentera e in Grecia), e chi è rimasto a casa, in preda a complessi pre-moderni, ha voluto dimostrare a tutti – in primis, a sé stesso – che l’Italia è un posto meraviglioso. E però sarebbe difficile immaginarsi Formentera e Antiparos come un vero estero: sono spiagge, generalmente costellate da italiani, quindi sempre Italia, è, anzi Sardegna, ma coi souvlaki e un po’ di esotismo. La differenza è che chi si è avventurato in quest’estero addomesticato non ha esagerato con post e stories; sì, la spiaggia, sì, l’acqua azzurra, magari fotografata dal barchino o dal gommone. Ma non si è spinto (grazie, davvero) fino alla vanteria fotografica del piccolo borgo e soprattutto dell’indotto enogastronomico. Chi è rimasto in Italia invece per sopperire alla vanteria dell’Estero ha invaso l’etere di borghi campanili pievi, caciotte babbà cannoli, dispute tra arancini e arancine, gozzi e gozzetti e barchini, riscoperta di antiche tradizioni giustamente dimenticate. L’Italia è un paese meraviglioso! (come dicono i cartelli autostradali verso le città d’arte).

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Le città d’arte, mortacci: questa parola sinistra che già faceva rabbrividire col suo sapore di gite scolastiche e retorica da Pro-Loco, generalmente riguardava un tempo weekend corti o lunghi ma mai un intero mese. L’estate 2020 è stato invece un infinito weekend, come quegli smart box negli angoli sinistri delle librerie di catena. Una delle città d’arte preferite, ovviamente, è Roma. Dal nord calavano dunque i milanesi in cerca di esotismo a buon mercato. Musei vaticani pieni di influencer e aspiranti tali, commenti tipo “Cappella sistina top!”, stories a piazza di Spagna come manco i turisti sudcoreani. Si son trovati benissimo, l’anno prossimo proveranno persino Napoli. La Sicilia poi proprio invasa: a Noto più turisti e curiosi che al fondamentale matrimonio, due anni fa, della Ferragni. Ma più ancora Ortigia. Per qualche strano motivo ogni anno una località si impone più di altre, sono i misteri come le classifiche dei best seller o le stelle Michelin al ristorante. Questo era l’anno di Ortigia. Lì, tra il barocco scatenato e i timballi di melanzane, tutto un “ti taggo io o mi tagghi tu?”, di milanesi e romani, più numerosi e scatenati che su corso Italia a Cortina, o su via del Corso. Anche, riscoperta di Pantelleria. Tenuta delle Eolie. I milanesi book influencer con casse di libri pesantissime agli imbarchi al Beverello, per le consuete foto di libri con dida forse preparate durante il lockdown, e anche nella variante fetish, su speedo e cosce e su piedi e tette (solo per gli amici più stretti).

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Polemiche per tanti topless censurati dall’algoritmo di Instagram. In generale, tutto un lasciarsi andare, una voglia di trasgressione, anche: che sballo, oh wow, oh cazzo, a fare dei falò come a dei Burning Man in mezzo al deserto non del Nevada ma di Agrigento. Scoperta di isole scomodissime e remote (“ah, beh, se non conosci Linosa… se non sei stato a Levanzo”), e poi storie di traghetti notturni che atterriscono e non invogliano. L’estate autarchica ha costretto tutti a inventarsi gite le più improbabili, anche faticosissime. Chi aveva una piscina con una vista vagamente instagrammabile, magari a sfioro, è salvo. Noi, gli altri, siamo stati perduti. Costretti a vagare tra alberghi e alberghetti e amici ospitali e lidi già presi d’assalto. Noi, fascia alta dei morti di fame, noi intellettuali insomma, siamo stati infatti molto danneggiati in quello che è un tassello importante del nostro business model, l’estate a scrocco. “Non guadagnerai un soldo, abiterai in catapecchie, nessuno pagherà le tue fatture” ti insegnano all’inizio colleghi e maestri; “ma le vacanze non saranno mai un problema”. Generalmente l’intellettuale italiano dai primi di giugno batte infatti la penisola rifocillato da quella rete di solidarietà unica al mondo costituita dai festival letterari: da Bolzano a Palmi, un fittissimo calendario che con appuntamenti complessissimi e spesso sovrapposti riesce a piazzare eventi che vertono su ogni campo dello scibile umano, dall’astrologia alla pizzica, con ospitate di giornalisti e scrittori (anche con trattino, giornalista-scrittore).

 

Il giornalista-scrittore dunque quando arriva, stremato, alla fine di maggio, sa che da quel momento in poi può finalmente smettere di fare la spesa, la sussistenza è assicurata, perché basterà giostrarsela bene e arriverà fino a ottobre inoltrato spesato. Certo, ci sono gradazioni e controindicazioni, ci sono i festival giusti e quelli meno giusti, e il giornalista-scrittore con gli anni impara tutte le tecniche: dall’imporre un certo numero di copie minimo da vendersi del suo ultimo libro al festival “Confusa-Mente” (il calembour è parte del mondo dei festival), a un numero minimo di notti o di congiunti da portarsi (se il congiunto è pure giornalista-scrittore, farsi collocare in eventi attigui, con raddoppio dell’ospitalità); come sopravvivere a un’alimentazione a base di fritti e chiacchiere con gli assessori. Come negarsi all’ultimo nel caso intervenga un invito più interessante, magari con il rarissimo e agognato Gettone di Presenza. Ma tutto questo mondo delicatissimo e complesso, che tiene in piedi l’Italia come un Mes per gli intellettuali e i comuni, quest’estate è saltato, per colpa del maledetto Covid. I festival minori sono stati sospesi, quelli maggiori fanno tutto online: dunque anche chi generalmente non aveva il problema di organizzarsi la vacanza è stato posto di fronte a scelte difficili, come scavallare agosto, spendendo il meno possibile ma allo stesso tempo dovendo organizzare qualcosa di vagamente all’altezza della propria sofisticatezza. “Guarda, devo andare a letto presto perché domani devo andare al concerto di Brunori Sas alle sei di mattina, in una località raggiungibile solo a piedi”, mi dice il mio amico Z. una sera a cena a Roma. E la mattina, alle nove, quando mi sveglio, davvero ecco già le stories antelucane di Z. e di altre centinaia di malcapitati in una specie di pampa polverosissima, hanno fatto chilometri a piedi dal lontano parcheggio, e lo stesso Brunori da loro ripreso dice “beh certo voi fans miei siete proprio masochisti”.

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Il concerto impervio è una delle massime gioie dell’estate 2020: in Abruzzo, a Rocca San Giovanni, alla rassegna “Melodie all’alba”, a cura dell’associazione “Sinestesia”, concerti alle cinque di mattina. “Fantastico”, mi dice la mia amica S., “ci siamo alzati alle quattro e alle cinque e mezza eravamo già lì, un panorama, l’alba sul mare, meraviglioso, irripetibile”. Per chi non ha questo coraggio fisico, ecco l’idea: perché non girare con una bella macchina a noleggio? Ci si potrà fermare in tanti borghi della nostra bella Italia fuori dalle rotte più turistiche (se sono fuori dalle rotte ci sarà un motivo). All’autonoleggio tutti sono gentili nonostante il caldo. Ma poi, ecco il demone della vacanza 2020, l’ansia. Un amico ti dice: bella la macchina, ma hai controllato la cappelliera? Ma come, non conosci la truffa della cappelliera? Ma dove vivi. Il paese reale non si fida, non come noi nelle nostre bolle. Seguono ricerche su Google, vien fuori tutto un mondo di turisti della nostra bella Italia truffati, manca la cappelliera, quando ridarai l’auto indietro, ti diranno che prima c’era, e si prenderanno tutta la caparra. Ma come, fai il giornalista e non sai la truffa della cappelliera? Mi stupisco di te.

 

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Dunque giorni di angoscia, si scrivono mail, si cercano testimoni, si fanno foto alla macchina priva di cappelliera, col giornale del giorno, tipo Br con Aldo Moro. In alternativa al noleggio (aridatece l’aereo) mezzi di trasporto inusitati: gite in motoscafo in laghi puzzolenti (Iseo, Trasimeno, Como), anche con meteo avverso. Passeggiate nei boschi (Ci si saluta! Ah, che civiltà. Intanto sui laghi alpini han dovuto chiamare l’esercito per i troppi che si vanno a far le foto da postare su Instagram, e cascano in acqua). Traversate defatiganti in pullman. E’ il mezzo dell’estate: molti l’hanno scoperto o riscoperto, eccitati, riavvicinandosi a un mezzo su cui erano saliti l’ultima volta ai tempi del liceo. Ma a differenza dei treni, il pullman è rimasto uguale. Ci sono dei mezzi che rimangono uguali. Così a metà agosto, folle alla stazione Tiburtina, per le Marche e per gli Abruzzi: via verso quell’Italia non connessa dall’Alta Velocità ma dalle corriere. Da Venezia a Cortina, sotto nubifragi, seduti in prima fila per non vomitare, invece dato l’assetto rialzatissimo del pullman, ecco una micidiale vista panoramica e grandangolare su tachimetro dell’autista, e sulla scarpata laterale, mentre dietro stuoli di filippini mangiano Magnum tra i fili penzolanti dei cavetti Usb che pendono dal soffitto per ricaricare i loro Samsung (unica miglioria del pullman gran turismo in questo ventennio). Fermate a svincoli industriali, tra Mogliano Veneto (Sonego, Benetton) e Rovigo.

 

Idee di intraprendere crociere tra le ville venete (subito stroncate sul nascere, magari un’altra volta). Venezia torrida e umida come un forno a vapore, disabitata di turisti americani e in preda a orde di tedeschi che spadroneggiano a passo di marcia (i vaporettisti, per protesta, non annunciano le fermate, e tu, turista italiano, sei lì schiacciato tra le due potenze). Altri giri in pullman: le Marche, passando dentro il parco nazionale d’Abruzzo, e il Gran Sasso (ah, le Marche, le Marche, finalmente s’è trovata occasione d’andarci. Le case non costano nulla! Le dolci colline! Ma davvero vogliamo tornare nelle nostre inquinate Milano e Roma? Qui si lavorerebbe vista mare). Ecco, subito vien fuori il south working, come l’ha chiamato Arnaldo Greco su Rivista Studio: l’idea del rimanere finalmente al borgo natio, non tornare mai più nelle alienanti Milano e Roma (per non parlare della tentacolare Londra o New York in mano agli homeless. Per carità!). Rimaniamo qua, nella nostra bella Italia, ingrassare di cannoli e babbà e arancin*. Le università stanno trattenendo tutti nella più grande operazione di bamboccionismo di stato: alcune regioni pagheranno le tasse universitarie a chi rimane. Tanti sono tentati. Mai più il petto di pollo ossidato dei bar di Milano! Solo babbà a chilometri zero. Tutto del resto è meglio che la grande città. E nelle Marche, terra un tempo di scarpe, come scrive Manuel Orazi, e invece oggi Sud in interessante cambiamento, forse Texas d’Italia: south working anche qui.

 

Al club ZeroVirgola di Civitanova, lido di gran pesce all’ombra di grattacieli ottimi per Instagram, un po’ Gomorra, si rimpiange molto il conte Vanni Leopardi. Si potrebbe venire qui, in pausa pranzo, in una vita immaginaria. E però, dopo un po’, l’epifania: tutti i maschi portano il colletto alzato della polo. E’ infatti uscendo dalle grandi arterie, dalle nostre bolle di Milano e Roma, che si nota quel fenomeno unico italiano. Fateci caso, nell’Italia della bella provincia, nell’Italia no Tav, i maschi, come ad alzare un vessillo, o un ponte levatoio, per proteggersi forse da qualcosa (dalla modernità?), cacciano l’alettone, come quello della Lancia Thema Ferrari degli anni Novanta. Improvvisamente issano il colletto della polo. Non c’è scampo. Non c’è un vero motivo. E’ il segnale che siamo in provincia, le belle bandiere (Ralph Lauren e Lacoste) alzate. Nel paese del colletto alzato tutto è comodo, tutto funziona. Borghi e borghetti e negozietti deliziosi pieni di ogni ben di Dio, il pane gustoso come una volta e il latte appena munto e una certa pasta fritta che fan solo qui (già, ma che mal di pancia però dopo: il misterico latte di soia o di avena non è mai arrivato, così così come il riso integrale: e se li chiedi questi ingredienti da mezzo uomo ti guardano malissimo). Tutto è basico, solido, a chilometro zero. La famiglia è naturale e il latte intero. Altro che blackface e blacklives, al bar di una stazioncina: che te do, bella, una coca, un caffè, un kiss? E a una coppia, lui bianco e lei di colore. Coffee? Black and white?, con ammiccamento, o forse solo strabismo, del bartender.

 

In un paesino vado a vedere dove fanno un antico formaggio, una famiglia che è tornata a vivere lì, decantano il bello dello stare su quell’appennino, la vita sana, e un certo cervo che viene la mattina, e quella ricotta fresca che fanno, mi convince quasi, le case non costano nulla anzi ti daranno pure un incentivo, ma a me non piace la ricotta, e poi: io e te, cervo caro, ma che se dovemo di’? Nel paesino in cui sono cresciuto in provincia di Brescia ho fatto il giro, a piedi: casa mia, la scuola, la chiesa, è tutto ristrutturato, non c’è smog: e però tutto nel raggio di cinquecento metri. Riporto finalmente l’auto a noleggio, mi dicono “ci scusi, la cappelliera non la mettiamo mai, di solito dà fastidio”, guardandomi con compatimento (dopo i no vax, un complottista della cappelliera). Però dopo l’estate autarchica ho voglia solo di Milano e Roma e di San Francisco, coi suoi incendi e i suoi prezzi folli e gli homeless. Una sera dopo aver visionato centocinquanta storie da ogni angolo incontaminato d’Italia – gozzi e barchini e schiuma e acqua blu, acqua italiana – scendo a buttare la monnezza nel mio puzzolente quartiere romano, già felice per questo, e vedo un colossale afroamericano, in ciabatte e shorts, e me lo guardo, e lui mi saluta, ma in un modo diverso da come ci si saluta nei boschi e nei laghi di montagna, lui saluta perché gli americani ti sorridono e ti salutano, e io mi commuovo: vorrei baciare la pantofola anzi la ciabatta, i suoi ciabattoni, quelli con cui avrà sfidato le quarantene per venire qua, nell’Italia degli italiani, il paese più bello del mondo.

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